Il governo fa sul serio sulle gabbie salariali: l’alternativa al salario minimo

La Lega ha convinto la maggioranza col disegno di legge per differenziare le retribuzioni in base al costo della vita

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Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

Prima considerato un cavallo di battaglia esclusivo della Lega, l’opinione sulla questione sembra ora condivisa dalla maggioranza: le retribuzioni dei dipendenti pubblici e privati dovrebbero essere adeguate al contesto geografico in cui risiedono.

Questo non implica una modifica degli stipendi di base, bensì un’analisi delle voci retributive, delineando una sorta di modularità che può essere descritta giornalisticamente come “gabbie salariali”. Tuttavia, i partiti di maggioranza mantengono una certa distanza da questo concetto esplicito.

Per concretizzare questa idea, la Lega, con il sostegno di Forza Italia e Fratelli d’Italia, decide di agire su due fronti. In primo luogo, presentano un ordine del giorno durante la discussione che ha eliminato il salario minimo, ottenendo il consenso del governo alla Camera. In secondo luogo, propongono un disegno di legge che viene assegnato alla Commissione Lavoro del Senato il 28 novembre.

Contrarie le opposizioni

Le opposizioni, già in allarme per la considerata “rivoluzione” del salario minimo, accusano il centrodestra di perseguire il ritorno alle “gabbie salariali”. La maggioranza respinge tali critiche, affermando che si tratta solamente di aggiungere “voci” allo stipendio, il quale rimarrà “uguale per tutti”.

Con l’ordine del giorno presentato da Andrea Giaccone della Lega, si sostiene che, considerando il tema del costo della vita e delle retribuzioni adeguate particolarmente rilevante nel settore pubblico, dove uno stipendio nazionale unico può generare disuguaglianze territoriali e discriminazioni di reddito effettivo, sarebbe auspicabile per alcuni settori, come quello della scuola, evolvere la contrattazione. Da una retribuzione uniforme per tutti, si propone di passare a garantire un pari potere d’acquisto per tutti, ipotizzando una base economica e giuridica uniforme cui aggiungere una quota variabile di reddito temporaneo correlato al luogo di attività.

Il Partito Democratico accusa la maggioranza di voler “dividere il Paese”, mentre il Movimento 5 Stelle avverte Giorgia Meloni che, se seguirà la Lega in questa direzione, troverà il loro sostegno sia dentro che fuori dal Parlamento, a difesa della dignità dei docenti e dell’unità del sistema scolastico nazionale.

Cosa sono le gabbie salariali

La Lega non sta facendo marcia indietro, poiché il disegno di legge, firmato dal capogruppo Massimiliano Romeo, è stato appena assegnato in Commissione. Il testo mira a sostenere il potere d’acquisto dei dipendenti pubblici e privati introducendo trattamenti economici accessori collegati al costo della vita dei beni essenziali, secondo quanto definito dagli indici Istat nelle diverse aree territoriali in cui si svolge l’attività lavorativa. Si presta particolare attenzione alla distinzione tra aree metropolitane urbane, suburbane, interne e di confine.

Questo tema è di grande importanza per la Lega, che in passato, nel 2005, aveva ipotizzato il ripristino delle “gabbie salariali” durante il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici. Nel 2009, questa proposta fu nuovamente avanzata dall’allora leader Umberto Bossi.

L’introduzione delle “gabbie salariali” avvenne attraverso un accordo firmato il 6 dicembre 1945 tra gli industriali e le organizzazioni dei lavoratori. Tuttavia, la loro prima attuazione fu programmata nel 1946, inizialmente limitata alla sola area settentrionale del Paese. Dal 1954, queste restrizioni vennero estese a livello nazionale. Le “gabbie salariali” furono eliminate nel 1969, segnando l’esito di una stagione di proteste da parte dei sindacati e dei lavoratori che le consideravano discriminatorie. La cancellazione completa delle “gabbie salariali” avvenne concretamente nel 1972.

Pro e contro

Dal periodo degli anni Settanta in avanti, la discussione sulla possibilità di configurare differenziazioni salariali basate sulla geografia è stata sostanzialmente ostacolata dal riferimento costante alle “gabbie salariali” introdotte nel secondo dopoguerra, con tutte le loro rigidezze e iniquità. Il dibattito si è polarizzato notevolmente ed è diventato estremamente ideologico nel corso degli anni. Sollevare questo tema è diventato difficoltoso, spesso generando polemiche, come accaduto nel caso delle dichiarazioni di Valditara.

Il risultato è che la questione delle differenze di costo della vita tra Nord e Sud e tra le grandi città e le periferie rimane un problema irrisolto per i cittadini. Nonostante l’accentuazione dell’inflazione nell’ultimo anno abbia riportato all’attenzione il tema dell’alto costo della vita, la questione persiste e impatta sulla condizione economica dei cittadini che, a parità di stipendio, si trovano a essere più o meno svantaggiati in base al luogo in cui vivono.

La situazione attuale evidenzia una persistente divergenza di opinioni tra i sindacati e le aziende riguardo alla differenziazione salariale basata sulla geografia. I sindacati mantengono posizioni simili a quelle degli anni Sessanta, considerando ingiusto e iniquo diversificare i salari per lavoratori che svolgono mansioni simili. Ritengono che questa pratica non faccia altro che accentuare le differenze tra Nord e Sud, tra grandi centri urbani e periferie. Secondo la prospettiva sindacale, lo sviluppo economico delle regioni meno avanzate potrebbe essere incentivato attraverso salari più elevati, che a loro volta genererebbero maggiori consumi.

Dall’altro lato, le aziende sostengono che beneficiando di un costo del lavoro più basso, potrebbero svilupparsi anche nelle aree territoriali più svantaggiate dal punto di vista produttivo. Secondo la visione imprenditoriale, salari più bassi e, di conseguenza, costi inferiori, potrebbero consentire alle imprese di assumere più personale, contribuendo così a migliorare il tenore di vita di un maggior numero di persone.

I contratti lavorativi italiani

In Italia, attualmente, la stragrande maggioranza dei dipendenti è assunta in base a contratti collettivi del lavoro. Questi contratti, negoziati a livello nazionale dai sindacati e dalle associazioni datoriali, stabiliscono le condizioni di base del rapporto di lavoro, tra cui orari, ferie e la retribuzione minima per ogni livello contrattuale, che varia in base al ruolo e all’esperienza richiesta.

La differenza media è del 4,2%, ma il costo della vita varia significativamente, con incrementi legati alla densità urbana. Ciò porta a un impoverimento relativo dei lavoratori nelle zone costose. Secondo uno studio di Tito Boeri, ex presidente dell’INPS e professore di economia all’Università Bocconi, la contrattazione nazionale ha creato squilibri territoriali, contribuendo all’elevata disoccupazione nel Sud, dove la produttività è più bassa.

L’approccio centralizzato della contrattazione è stato criticato per favorire distorsioni e disuguaglianze. Tuttavia, ha protetto i lavoratori meno qualificati. Alcuni suggeriscono di spostare la contrattazione salariale a livello locale o aziendale per considerare meglio le differenze di produttività. Altri ritengono che il rilancio delle regioni meno sviluppate dovrebbe derivare dagli investimenti, piuttosto che da un costo del lavoro più basso. Queste prospettive riflettono un dibattito complesso sul ruolo della contrattazione collettiva e degli investimenti nello sviluppo economico territoriale in Italia.