Design, tecnologia e interazione umana sono sempre più interconnessi. Lo sa bene Matteo Rostagno, torinese ormai trapianto a Londra da un po’, che negli ultimi 20 anni ha ideato, progettato e costruito esperienze digitali sulle più importanti piattaforme digitali. Il suo lavoro è immaginare una possibile intersezione tra design, tecnologia e uomo. Creare esperienze per piattaforme in tempo reale, unire le realtà esplorando tutti i mondi possibili, dal virtuale alle IA al reale.
Rostagno, sul tuo sito ti presenti come “Creative Director e Interaction Designer”. Come spiegheresti il tuo lavoro a chi non ne ha mai sentito parlare?
Io di base sono un Interaction Designer: significa che mi occupo di progettare e disegnare come le persone interagiscono con prodotti digitali, siano essi siti web, applicazioni o altri tipi di esecuzioni digitali. Si tratta di una disciplina complessa, che si basa sulla ricerca e sull’applicazione di metodologie studiate apposta per le interfacce digitali. Oggi, questa materia è vasta e comprende tanti aspetti e specializzazioni diverse, quindi si tratta di una descrizione generalista che racchiude diverse discipline. Come Creative Director, il mio ruolo consiste nel collaborare con il mio team per ideare soluzioni creative nell’applicazione di queste discipline al fine di risolvere le sfide dei nostri clienti. È mia responsabilità guidare il team per trovare idee e soluzioni innovative, soddisfacenti e funzionali, facendo in modo che poi vengano successivamente sviluppate e realizzate in modo coerente con il progetto iniziale.
Che differenza c’è rispetto a un Creative Director classico?
Io non mi occupo di advertising, ma dello sviluppo di prodotti digitali immersivi. Questo ruolo richiede una conoscenza tecnologica e di design diversa dalla classica figura del Creative Director di agenzia.
Spesso tra i non addetti ai lavori è diffusa l’idea che il processo creativo sia qualcosa che rimanda al genio, all’improvvisazione. Quanto conta invece il metodo, strutturato, e come approcci tu un nuovo lavoro?
A mio avviso l’uso del termine creativo è molto inflazionato. La capacità di generare idee per creare qualcosa di nuovo è una caratteristica umana comune, presente in tutte le persone, che sia in modo conscio o inconscio. In ambito lavorativo, la creatività è un elemento che deve far fronte a problematiche reali di budget, risorse, tempistiche e logistiche e quindi molto spesso più simile a quello che viene chiamato problem solving. La capacità di essere creativi quindi si estende a tutte le discipline ed è una combinazione di attitudine e competenza, entrambe qualità che possono essere sviluppate nel corso del tempo.
E come si fa?
Per sviluppare queste qualità ci sono apposite metodologie e strutture: nel mio campo, la preparazione, la capacità di analisi e la sperimentazione rivestono grande importanza. Il costante ciclo tra questi elementi favorisce la scoperta di nuovi approcci e intuizioni innovative. Ovviamente, ci sono persone più inclini ad avere intuizioni di altre, ma anche questo è un fattore che può essere coltivato nel tempo.
In che modo l’innovation design può cambiare il mondo, e il modo, in cui viviamo? Che tipo di impatto può generare nelle persone e nelle società?
Il concetto di Design Innovation è un’idea che si applica a tutti i campi ed è un approccio che sta già cambiando il mondo in cui viviamo. Non mi riferisco solo al mondo digitale, ma anche e soprattutto al mondo reale. Pensiamo a come il design thinking sta già modificando i nostri modelli di business e le filiere, ad esempio rendendo l’economia circolare una realtà. Il termine design per sé racchiude tutti quei processi e metodologie che possono essere applicati appunto in qualsiasi ambito. Nel mio settore l’innovation design è usato per lo sviluppo di applicativi che interconnettono il mondo digitale, virtuale, e quello reale.
Ci fai qualche esempio pratico sulla base della tua esperienza? Ci racconti qualche progetto che ti ha appassionato particolarmente?
Mi occupo prettamente di progetti nell’ambito dell’intrattenimento ed educazione, e qualche tempo fa mi è capitato di lavorare su un progetto di realtà aumentata indirizzato ai bambini più piccoli, il cui intento era quello di aiutarli a formare l’abitudine di lavare i denti. L’intenzione era rendere il processo di lavare i denti divertente come un gioco, con l’obiettivo di mantenere l’attenzione per l’intera durata necessaria. Inoltre, si prevedeva che i bambini partecipassero a questa attività ludica per un periodo di 20 giorni per instaurare l’abitudine desiderata. Ci siamo divertiti molto a lavorare con loro e il risultato è stato molto soddisfacente.
Da Torino a Londra… quali limiti vedi in Italia, e nella cultura di impresa italiana, rispetto alla tecnologia e all’innovazione?
Mi sono spostato nel Regno Unito più di 10 anni fa e immagino – e spero – che lo scenario sia un po’ diverso oggi. A mio parere, in quel periodo, il problema predominante nel mio settore era sopratutto di natura manageriale. Nel corso degli anni, ho collaborato con numerosi talenti che, purtroppo, in Italia non riuscivano a trovare gli spazi e le opportunità che cercavano. Spostandosi in altri Paesi, hanno finalmente individuato la loro strada e ottenuto successo.
Cosa abbiamo di positivo noi italiani?
A mio parere la nostra forza lavoro si distingue culturalmente per la notevole capacità di adattamento e un’esperienza più allargata rispetto ai nostri competitor. A differenza dell’estero, dove i profili sono spesso altamente specializzati, in Italia quasi sempre ci troviamo di fronte a professionisti capaci di svolgere diverse attività, offrendo così una prospettiva più ampia che nel lungo termine si dimostra vantaggiosa. Questo aspetto è principalmente dovuto al fatto che la nostra cultura lavorativa ci ‘obbliga’ ad adattarci alle circostanze per poter avanzare nelle nostre carriere, con tutti gli alti e bassi che questo comporta. A quanto ne so, nel campo della tecnologia e dell’innovazione ci sono numerose eccellenze in Italia.
E quindi il problema vero qual è?
La mancanza di un reale impegno dello Stato nel creare un sistema lavoro fluido, solido e quindi attraente, capace appunto di promuovere a far crescere queste realtà. Anche quando ci sono stati investimenti, spesso la cattiva gestione finanziaria e manageriale ha impedito di ottenere i risultati sperati.
Com’è invece fare i creativi in un mercato come quello londinese e cos’è cambiato con la Brexit?
Londra rappresenta indubbiamente uno dei principali centri finanziari globali, ed è quindi la sede di alcune delle più grandi aziende nel settore della comunicazione, del marketing e della tecnologia a livello mondiale. Quando sono arrivato, il mercato del mio settore era molto dinamico, con molte opportunità di tutti i livelli. A Londra arrivano talenti da tutto il mondo che vogliono inserirsi, creando un ambiente lavorativo molto competitivo ma anche molto stimolante. Oggi, dopo 7 anni dalla Brexit, lo scenario è sicuramente cambiato: il mercato è visivamente meno dinamico e molte strutture hanno preferito spostarsi in altri Paesi per rimanere all’interno dell’Europa. Le scelte politiche fatte negli ultimi anni hanno definitivamente reso il Regno Unito meno attraente di quanto lo fosse una decina di anni fa.
Tu ti occupi nello specifico di XR (Extended Realities), termine che si riferisce a tutti gli ambienti combinati reali e virtuali e alle interazioni uomo-macchina generate dalla tecnologia. In Italia il dibattito sull’AI è sostanzialmente dominato dal terrore per la perdita di lavoro, la sostituzione dell’uomo con le macchine. Cosa ne pensi?
Il termine Extended Realities racchiude principalmente l’ambito della Spatial Computing, la convergenza e la fusione tra mondo digitale e fisico: in pratica il sistema che consente agli utenti di collocare oggetti virtuali nel mondo reale. Mentre l’AI fa riferimento da una tecnologia che non è necessariamente collegata allo Spatial Computing, ma che ne può far parte ovviamente. Il dibattito sull’AI è molto sentito dappertutto. Come in ogni nuova rivoluzione tecnologica, emergono cambiamenti significativi e di conseguenza punti di vista molto contrastanti. Nella storia dell’uomo abbiamo già visto, senza andare troppo indietro nel tempo, come ad esempio l’automatizzazione delle industrie aveva già causato forti discussioni e cambiamenti, con figure lavorative che sono state rimpiazzate con altre nuove forme lavorative. Non credo nella ‘sostituzione dell’uomo con le macchine’ stile Matrix, ma penso che l’AI diventerà uno strumento per automatizzare e rendere molti dei mestieri di oggi più efficienti.
Con quali vantaggi?
Senz’altro contribuendo ad instaurarne di nuovi di cui ad oggi non siamo ancora a conoscenza: anche il web designer o il social media manager sono mestieri che non esistevano prima di 20 anni fa. L’automazione e l’efficienza apportate dall’Intelligenza artificiale avranno sicuramente un impatto significativo sulle nostre vite, contribuendo a migliorarle specialmente in settori come la medicina e la ricerca, ad esempio.
E i rischi invece?
La mia preoccupazione riguarda invece la necessità di avere una legislazione e formazione adeguata per gestire una tecnologia così potente e impattante. Legislazione perché la gestione di questa tecnologia non dovrebbe essere esclusivamente in mano ad aziende private o ad un governo, ma dovrebbe esserci una piattaforma globale che ne regoli l’uso e che ne faccia da garante. Inoltre, è fondamentale educare le nuove generazioni sulla tecnologia stessa, garantendo che non diventi l’unica risorsa e fonte di informazioni, ma piuttosto insegnando l’autonomia e l’integrità come valori fondamentali per la società del futuro.
Al Fabermeeting di Torino a cui sei stato ospite alcune settimane fa un ragazzo ti ha chiesto conferma del fatto che il Metaverso fosse un programma abbandonato e tu hai sorriso, rispondendo che gli investimenti dei prossimi quattro anni sembrano proprio smentire questa tesi… Cosa ci dobbiamo attendere per i prossimi anni? Dove si concentreranno gli investimenti e quali traiettorie è possibile – se è possibile – secondo te provare a tracciare?
Mi ha fatto sorridere sentire parlare di Metaverso come un “programma” in stato di abbandono. La cosa ironica è che il nome di Metaverso è in sé una sorta di parola alla moda, creata appositamente per riunire diverse tecnologie virtuali e piattaforme sociali che già erano esistenti nel mondo digitale, ma che sono state rivisitate e riproposte in un contesto storico in cui la pandemia ha reso essenziale connetterci in modo virtuale, e Facebook – che menziono perché è stato un elemento chiave nell’introduzione del concetto di Metaverso nell’immaginario collettivo – aveva bisogno di rinnovarsi per svelare la sua nuova mission. L’immagine del Metaverso di quel contesto storico specifico sembra oggi un po’ abbandonata, e direi che è una buona cosa, ma l’insieme di tecnologie e opportunità di connessione tra persone che questo concetto rappresenta è in realtà ancora ben presente e attivo. In questo senso il modello Hype Cycle – ciclo dell’esagerazione – di Gartner, aiuta a capire: dopo un momento di eccitamento ed uno di disillusione, tendenzialmente una nuova tecnologia è pronta per essere adottata.
Ad esempio?
Pensiamo alle immense comunità di utenti su piattaforme come Roblox o Fortnite, per esempio: anche se a qualcuno potrebbe sembrare estraneo o alienante, milioni di giovani sono già abituati a interagire attraverso il “metaverso” di queste piattaforme, parallelo alla loro vita reale. Con il generale miglioramento delle tecnologie di spatial computing, la facilità con cui queste comunità passeranno da un metaverso ludico ad uno di ambito lavorativo ad esempio diventerà quasi organica.
Come cambierà la nostra user experience rispetto al digitale, quali scenari vedi?
Quello che sto notando è che la volontà è gradualmente di staccarsi dall’uso dello schermo degli smartphone e dei computer fissi verso l’adozione di tecnologie indossabili e dispositivi di computing spaziale. Questi ultimi diventeranno sempre più sofisticati e discreti, integrandosi così completamente nella nostra vita quotidiana, a vantaggio di tutti, e anche di chi si trova in una condizione di disabilità ad esempio.
Tipo?
Già oggi abbiamo un esempio tangibile con l’AI pin, un dispositivo senza schermo che sfrutta l’Intelligenza artificiale e lo spatial computing per fungere da assistente portatile nelle attività quotidiane. Posso comprendere che questa prospettiva possa sembrare alienante a qualcuno. Ma basta osservare quanto tempo le persone trascorrono sui dispositivi smartphone, distogliendosi completamente dal mondo circostante, per capire che un mondo digitale più organicamente integrato nella realtà potrebbe, eventualmente, migliorare il nostro modo di interagire con l’ambiente e gli altri. Naturalmente non va dimenticata però la questione della privacy.
Tu hai esperienze in settori molti diversi tra loro. Hai lavorato per Google, Meta, Microsoft, Netflix, Vodafone, Barclays, FCA, Zegna. Riesci a farci qualche esempio pratico di come potrebbe cambiare il nostro modo di relazionarci a questi sistemi?
All’interno delle aziende in cui ho lavorato nel corso degli anni abbiamo avuto l’opportunità di collaborare con questi colossi. Ci siamo dedicati a progetti estremamente diversificati per ciascuno di questi brand, affrontando sfide e problemi altrettanto vari. Se dovessi fornire esempi concreti relativi ai brand citati, potremmo sicuramente immaginare che uno dei modi in cui interagiremo con loro sarà attraverso l’uso delle extended realities. Per esempio, in un futuro neanche troppo lontano potremmo utilizzare un dei devices di Meta per provare virtualmente l’ultima collezione di Ermenegildo Zegna, ricevendo consigli sugli abbinamenti dall’Intelligenza artificiale di Google. Potremmo quindi decidere di acquistarlo effettuando il pagamento con un semplice gesto attraverso un dispositivo con riconoscimento biometrico di Barclays, il tutto indipendentemente da dove ci troviamo in quel momento. In generale, penso che la differenza principale sarà soprattutto nella velocità e nella facilità di accesso a questi sistemi e nel realismo degli elementi virtuali, che si integreranno perfettamente con il mondo circostante.
Quali consigli ti sentiresti di dare ai giovani che volessero lavorare nell’ambito del creative design?
Il concetto di creative design abbraccia una vasta gamma di discipline. Ciò che ritengo comune a tutte queste discipline è l’atteggiamento e l’approccio verso di esse: la capacità di affrontare i progetti con inventiva e ingegnosità, vedendoli non in modo isolato, ma in relazione alle esigenze degli individui e delle comunità. Quello che consiglierei ai giovani è quindi di adottare un’attitudine ad esplorare, sperimentare e continuare a porsi domande. La nota affermazione di Steve Jobs “Stay hungry, stay foolish” riflette appieno questa attitudine. Citando anche uno dei pionieri del Bauhaus: “Il design si manifesta nell’organizzazione delle esperienze emotive, nella vita familiare, nei rapporti di lavoro, nella pianificazione urbana e nel collaborare come esseri umani civilizzati. In ultima analisi, tutti i problemi di design convergono in un unico grande problema: il ‘design per la vita’.