Nelle prime ore dopo le esplosioni dei cercapersone degli affiliati del gruppo terroristico libanese Hezbollah, una delle ipotesi che ha ottenuto maggiore visibilità sulla dinamica dell’attacco era quella di un sabotaggio informatico a distanza. Si sarebbe trattato, in quel caso, di una delle operazioni di guerra cibernetica più avanzate e riuscite di sempre.
Inoltre, una circostanza simile avrebbe causato preoccupazione in tutto il mondo quando, il giorno dopo, ad esplodere sono stati anche alcuni smartphone. Ancora prima che fosse scoperto il sabotaggio con piccole quantità di esplosivo, molti esperti avevano chiarito che far esplodere un dispositivo del genere a distanza è impossibile.
L’esplosione dei cercapersone di Hezbollah: cosa è successo
Tra martedì 17 e mercoledì 18 settembre migliaia di cercapersone appartenenti a esponenti di Hezbollah, il gruppo terroristico che controlla il sud del Libano, sono esplosi simultaneamente. Quello che si suppone sia stato un attacco di Israele, ha causato migliaia di feriti e decine di morti tra le file dei miliziani, ma anche tra i civili che si sono trovati per caso nell’area dell’esplosione.
I cercapersone, secondo le prime ricostruzioni, erano stati ordinati da Hezbollah perché ritenuti più sicuri degli smartphone per le comunicazioni. Si tratta di dispositivi che possono essere raggiunti telefonicamente con una chiamata o un brevissimo messaggio. A queste chiamate non si può rispondere, ma la persona in possesso del dispositivo può visualizzare il numero che sta tentando di raggiungerlo e capire semplici ordini da questa comunicazione.
La dirigenza di Hezbollah era preoccupata che le comunicazioni tramite smartphone potessero essere individuate da Israele e sospettava che alcuni attacchi avvenuti in passato contro esponenti di spicco del gruppo fossero stati possibili proprio a causa dell’eccessivo utilizzo di telefoni cellulari connessi a internet.
Perché non è stato un attacco hacker
Nei giorni successivi all’attacco alcune inchieste, come quella del New York Times, avrebbero scoperto un piano di lungo periodo dei servizi segreti israeliani attorno a questa operazione. I dispositivi erano stati sabotati inserendo al loro interno piccolissime cariche esplosive, sufficienti a ferire gravemente o anche uccidere persone che si trovavano a stretto contatto con i cercapersone.
Subito dopo gli attacchi però una delle ipotesi che sono circolate con maggiore insistenza era quella dell’attacco hacker. L’idea era che i servizi segreti israeliani avessero trovato il modo di violare questi dispositivi a distanza, di sovraccaricarli e di farli esplodere. Una prospettiva terrificante per molti, specialmente quando ad esplodere, nella giornata di mercoledì, sono stati anche degli smartphone identici a quelli che usiamo tutti i giorni.
Si tratta però di un’idea impossibile da realizzare. Nulla, in uno smartphone o in un cercapersone, può esplodere nel modo in cui sono esplosi i dispositivi di Hezbollah. L’indiziato principale erano le batterie agli ioni di litio, che effettivamente, pur non esplodendo, possono prendere fuoco e raggiungere temperature elevatissime.
Questi incendi però si verificano solo in due circostanze: quando la batteria viene colpita da un urto molto forte o quando si surriscalda. Nel caso dell’urto, è evidente come non sia possibile causarlo a distanza tramite un attacco informatico. Il surriscaldamento è teoricamente raggiungibile tramite l’esecuzione sul dispositivo di moltissime applicazioni e programmi che richiedono tantissima energia, ma si tratta comunque di un processo graduale che durerebbe alcuni minuti. Una persona sentirebbe il proprio telefono scottare e potrebbe liberarsene prima che prenda effettivamente fuoco.