Abiti usati, da dove arrivano e come funziona la moda circolare

L'economia circolare porta certi abiti a non finire la loro vita nei cassonetti gialli, ma a fare dei giri immensi e infine a ritornano in un'altra forma

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Giorgia Bonamoneta

Giornalista

Nata ad Anzio, dopo la laurea in Editoria e Scrittura e un periodo in Belgio, ha iniziato a scrivere di attualità, geopolitica, lavoro e giovani.

Pubblicato: 13 Luglio 2024 12:00

Ti sei mai chiesto dove vanno a finire i vestiti che non indossi più? O chi ha indossato prima quel capo vintage che hai trovato al mercatino?

L’abito usato è il perfetto esempio di economia circolare: parte dalle donazioni (anche se è più giusto definire il gesto come un gettare il “rifiuto pulito”) nei cassonetti gialli, passa per una selezione per i bisognosi, una seconda divisione per negozi vintage e bancarelle, e un’ultima che scinde materiali recuperabili e scarti non riciclabili. Una filiera che non finisce qui, ma che arriva fino ai Paesi dove le fibre vengono lavorate e tornano in Italia come materia prima o abito nuovo, spesso di fast fashion. Insomma, certi abiti non finiscono con i cassonetti gialli, fanno dei giri immensi e poi ritornano.

Da dove arrivano gli abiti usati?

I negozi vintage, di seconda mano di lusso o più accessibile, ci vendono l’idea di compiere una buona azione. Molte persone acquistano gli abiti usati perché consapevoli dell’enorme impatto che il settore tessile ha sull’ambiente e sulle persone. Stesso discorso per le bancarelle al mercato settimanale, dove c’è un ulteriore vantaggio oltre alla consapevolezza dell’impatto ambientale, ovvero il risparmio economico.

Che l’abito sia in buone condizioni e quindi selezionato per un negozio dell’usato o in condizioni da bancarella, la domanda è la stessa: da dove arrivano questi abiti?

La maggior parte degli abiti usati proviene dai cassonetti stradali gialli. Si tratta della percentuale più grande, alla quale si aggiungono raccolte private e donazioni. Solo una piccola parte degli abiti nei negozi dell’usato proviene da una vendita diretta dal precedente proprietario, perché tale sistema è più comune nei mercatini dell’usato con una sede fisica dove l’abito viene esposto e i soldi al proprietario dell’abito arrivano solo post vendita.

Ma torniamo ai cassonetti gialli, ormai famosi e presenti in tutte le città d’Italia (solo a Roma se ne contano 1.500). Sono questi la principale fonte di abiti usati, che vengono in seguito raccolti, inviati ai centri di smistamento e selezionati per diverse finalità. Non è una modalità senza problemi: il rapporto sulle ecomafie ha descritto in più occasioni infiltrazioni della criminalità organizzata nella filiera degli abiti usati, arrivando a toccare anche Vesti Solidale e Caritas Ambrosiana. Tali realtà hanno in seguito attivato sistemi di monitoraggio e verifica per evitare nuovi incontri sgraditi con la criminalità.

Quando il sistema funziona e risulta pulito, però, è capace di generare un ottimo esempio di economia circolare.

Il percorso degli abiti usati: dal cassonetto giallo alla vendita nel mercato estero

Il giro di affari degli abiti usati è enorme. Secondo Unirai, consorzio di imprese di recupero di indumenti e tessili usati, in Italia tramite i cassonetti della differenziata sono state raccolte quasi 160.000 tonnellate nel solo 2019. Un altro dato può essere preso dai cassonetti gialli di Roma. Questi sono gestiti dalla Città Ecosolidale della comunità di Sant’Egidio, che dagli anni 2000 ha ottenuto una struttura (un’ex caserma) nella zona di Ostiense dove si raccolgono gli abiti e le coperte. Da allora la cooperativa dà lavoro a circa 35 persone ed è in grado ogni mese di distribuire circa 2 tonnellate di indumenti ai bisognosi e di rivendere tra le 28 e le 30 tonnellate ai negozi di seconda mano e vintage di Roma. Tale vendita porta un ricavato tra gli 8.000 e i 10.000 euro settimanali, guadagni che servono a finanziare le stesse opere sociali della comunità.

Anche dopo questi passaggi, gli abiti usati accumulati non sono finiti e vengono rivenduti alle imprese di recupero dell’area napoletana e un’ultima parte smaltiti.

È proprio questo il percorso di un abito usato, ma vediamolo nel dettaglio:

  • Dal negozio all’armadio
  • Dall’armadio al cassonetto giallo
  • Dal cassonetto giallo a un centro di raccolta
  • Da un centro di raccolta a:
    • a) ai bisognosi
    • b) negozio dell’usato
    • c) bancarelle
    • d) imprese di recupero tessile
    • e) venduto all’estero per essere lavorato
    • f) scarto

Sono i pezzi migliori, se non gestiti attraverso un sistema di supporto ai bisognosi, che finiscono nei negozi. Si tratta del passaggio con il fatturato più ampio, mentre una seconda selezione porta gli abiti meno pregiati, ma ancora in buone condizioni, sulle bancarelle nei mercati settimanali.

Prima dello scarto, un’ulteriore divisione separa gli abiti che saranno lavorati in Italia e quelli che saranno lavorati all’estero. Circa il 68% degli indumenti finisce nel “riuso”, mentre il 29% viene riciclato come fibra tessile e il 3% sarà da smaltire in altri modi per colpa del materiale di cui è composto.

L’importanza dell’abito usato, e quindi dell’economia circolare della moda, sta nell’alternativa a un sistema di smaltimento altrimenti molto inquinante. Un metodo tristemente diffuso è quello dell’incenerimento, che viene attuato da tanti marchi di abbigliamento per sbarazzarsi degli eccessi di produzione, cioè degli invenduti. Un esempio noto che ha creato scalpore è stato quello di H&M (già accusata insieme a Zara di deforestazione in Brasile), marchio di fast fashion che tra il 2013 e il 2017 ha bruciato oltre 60 tonnellate di vestiti non venduti. Ma non è la sola: per fare spazio in magazzino alle nuove collezioni, altri marchi bruciano l’invenduto.

È proprio nelle conseguenze di una moda troppo rapida, che si può apprezzare l’abito usato, il suo recupero dall’armadio al cassonetto e dal cassonetto all’armadio. Sono, nel tempo, le abitudini dei consumatori a cambiare e a chiedere una produzione più lenta e rispettosa.

L’impatto della moda circolare e il fascino del vintage riducono gli sprechi

Non tutto il mercato degli abiti usati è limpido, ma l’aumento della consapevolezza sugli impatti ambientali della fast fashion e, in generale, del settore tessile ha aumentato di conseguenza anche la voglia di vintage. Il recupero è prima di tutto culturale e se si convincono le persone che non solo gli abiti vintage fanno bene al pianeta, ma possono anche essere originali e alla moda, si conquista una grande fetta di pubblico. È proprio per questo che il settore ha iniziato a soffrire di una sempre maggiore concorrenza e di un nuovo livello di controllo.

Per esempio, è diminuita la vendita all’estero dei tessuti recuperati in Italia, e questo perché i Paesi, soprattutto extra-europei, stanno cercando di limitare l’import favorendo il mercato locale.

A questo si aggiunge la nuova direttiva europea, che impone una maggiore responsabilità da parte delle aziende rispetto ai rifiuti che generano. È presto per dirlo, perché le regole non sono ancora entrate totalmente in vigore, ma se ogni rifiuto ha un costo, le aziende potrebbero iniziare a produrre meno capi o meno di frequente e questo porterebbe sul mercato vintage sempre meno prodotti.

A differenza del passato, infatti, gli abiti usati non sono frutto di una maggiore selezione del consumatore iniziale, di un cambio di look personale, della crescita o del cambiamento di un corpo. Oggi sul mercato vintage è sempre più presente la fast fashion, che con le sue 50-54 mini-stagioni spinge la moda settimana dopo settimana, dettando l’acquisto compulsivo attraverso il vantaggioso compromesso del costo ridotto.

Quindi sì, la fast fashion sta rovinando anche il mercato del vintage, che nel frattempo cresce insieme alle nuove generazioni sempre più consapevoli dell’impatto ambientale del settore tessile. Si troveranno sempre veri appassionati di vintage a scavare nelle bancarelle e nei negozi dell’usato, mentre per chi fa una scelta consapevole si apre anche la possibilità di acquistare moda sostenibile, ovvero quei brand che producono con materiali etici e rispettando i diritti dei lavoratori.