Petrolio, gas e carbone mettono a rischio 2 miliardi di persone, l’allarme alla Cop30

Il rapporto di Amnesty mostra l’impatto della filiera dei combustibili fossili su salute, diritti umani e comunità indigene compresi bambini

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Giorgia Bonamoneta

Giornalista

Nata ad Anzio, dopo la laurea in Editoria e Scrittura e un periodo in Belgio, ha iniziato a scrivere di attualità, geopolitica, lavoro e giovani.

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La COP30 di Belém prosegue con incontri ufficiali tra leader e rappresentanti di enti per l’ambiente e proteste e rappresentazioni dal basso. In uno di quegli incontri meno noti al grande pubblico, si è presentato il capo del popolo indigeno Kayapò. Raoni Metuktire, capo tribù e principale leader indigeno del Brasile, ha fortemente criticato il progetto di estrazione del petrolio al largo della foce del Rio delle Amazzoni. Un’iniziativa di trivellazione approvata dallo stesso presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Come riporta lo stesso leader indigeno, 93enne candidato al premio Nobel per la pace per il suo impegno a favore dell’Amazzonia, simili progetti distruggono fiumi e terre, ma mettono anche a rischio miliardi di individui non solo in Amazzonia. Oltretutto rappresentano un paradosso della politica ambientale del presidente brasiliano, che da una parte si fa portavoce dei popoli amazzonici con la stessa conferenza organizzata a Belém e dall’altra dà l’ok a progetti di trivellazione le cui conseguenze ambientali e sociali sono sotto gli occhi di tutti.

In questa cornice di proteste, anche accese e che sono arrivate a scontri con le forze di sicurezza, è stato condiviso il risultato di un lungo studio condotto da Amnesty International. Il rapporto è una vera e propria mappa dei rischi per i diritti umani e degli ecosistemi derivati da infrastrutture per i combustibili fossili non solo esistenti, ma anche pianificate. Il dato più forte emerso dal rapporto è il numero di persone a rischio, ovvero 2 miliardi di esseri umani.

Il report sui combustibili fossili

COP30 diventa il palco per presentare un rapporto pesante. Quello condotto da Amnesty International, insieme ai dati del Better Planet Laboratory, è uno studio che racconta di un cambiamento climatico e di un’emergenza globale senza precedenti, la cui causa principale è la combustione di fossili che emettono gas serra.

Si potrebbe riassumere il rapporto con poche parole, ma molto chiare:

  • la crisi è presente e non futura, perché già 2 miliardi di persone vivono dentro la filiera fossile;
  • la crisi è ingiusta perché colpisce bambini e comunità indigene molto più del resto della popolazione;
  • la crisi è sistemica, perché sono i governi che continuano a finanziare nuovi impianti proprio quando dovrebbero chiuderli.

Ormai lo sappiamo, la crisi climatica è un’emergenza globale senza precedenti per i diritti umani e la combustione di fossili come carbone, petrolio e gas genera i gas serra che trattengono il calore e rappresentano di fatto la principale causa, attuale e storica, del riscaldamento globale di origine antropica. La scienza ormai non sa più come raccontarcelo. Un ultimo dato, quasi passato in sordina, è che nel 2024, per la prima volta e forse non l’ultima, la temperatura media globale ha superato il +1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali. Su carta abbiamo già toccato quel limite psicologico, oltre che ambientale, che ci eravamo prefissi di non superare.

Cosa è successo? Mentre la comunità scientifica e molti progetti basati su accordi internazionali puntavano a eliminare gradualmente i combustibili fossili, dall’altro lato l’industria dei fossili ha intensificato la propria influenza, blindando profitti e diffuso disinformazione. Un esempio tra tutti, ormai tristemente noto e ribadito proprio alla COP30, è lo sfilarsi degli Stati Uniti dalla lotta contro il cambiamento climatico.

Il ciclo di vita dei combustibili fossili e diritti umani

La ricerca di Amnesty International punta a dimostrare che, oltre a provocare cambiamenti climatici irreversibili, l’intero ciclo di vita dei combustibili fossili, cioè dall’estrazione allo smantellamento, distrugge gli ecosistemi naturali cruciali, ma mina anche i diritti umani. I più colpiti sono quelli che vivono vicino alle infrastrutture fossili.

Nel report ci viene raccontato come i progetti fossili alimentino schemi sistemici di esclusione tramite la negazione dei diritti di partecipazione pubblica, la marginalizzazione dei difensori ambientali e, in alcuni casi, intimidazioni, violenze o silenziamento diretto.

Ed è assurdo pensare che proprio il Brasile, che ospita la conferenza e che vuole dare uno spazio di partecipazione ai popoli indigeni, allo stesso tempo dia l’occasione di creare nuovi sistemi di approvvigionamento dei combustibili fossili, con tutte le conseguenze del caso.

2 miliardi di persone a rischio: fragili più colpiti

E allora il rapporto fa i conti e spiega perché a rischio è un quarto della popolazione mondiale, ovvero 2 miliardi di persone. Vengono incluse tutte le persone che vivono entro 5 km da infrastrutture fossili, cioè pozzi di petrolio, raffinerie, gasdotti, oleodotti, terminali LNG e centrali a carbone. Il numero è enorme e, come sottolinea il report, non è una stima generica. Si tratta della mappatura globale realizzata da Better Planet Laboratory che ha sovrapposto 18.273 siti fossili operativi ai dati demografici mondiali.

Di questi 2 miliardi di individui, al momento oltre 520 milioni sono bambini. Pur rappresentando meno del 5% della popolazione mondiale, il 16,1% di tutte le infrastrutture fossili si trova su territori indigeni. Cosa vuol dire? Che si trovano in aree povere e poco protette, in regioni con istituzioni deboli, aree a basso reddito e quindi con bassa capacità sanitaria e comunità con scarso potere politico. Questa dinamica è stata definita “razzismo ambientale”.

Il rischio di vivere vicino a infrastrutture fossili è tristemente evidente, perché vivere vicino a pozzi, raffinerie, hub petroliferi o gasdotti espone a un aumento del rischio di sviluppare malattie gravi come:

  • tumori;
  • malattie cardiovascolari;
  • bronchiti croniche e asma;
  • malformazioni alla nascita e parti prematuri;
  • disturbi d’ansia e depressione.

Amnesty definisce queste aree “zone sacrificabili” perché sono zone in cui ormai l’aria, l’acqua e il suolo sono talmente degradati da rendere la vita quotidiana un rischio sanitario permanente.

La mappa del rischio: dentro i 5 km

Sono due le tappe che si possono percorrere sulla mappa del rischio della filiera del combustibile fossile. La prima è entro 1 km, percentuale di territorio che mette a rischio 321 milioni di persone (quasi la popolazione degli Stati Uniti). La seconda tappa è entro i 5 km, dove il numero sale a 2 miliardi.

I ricercatori hanno diviso queste due fasce dopo aver analizzato 36 studi scientifici specifici sugli impatti sanitari dovuti alla vicinanza agli impianti fossili. Il risultato è che:

  • entro 1 km c’è il rischio massimo;
  • entro 5 km il rischio è definito “non trascurabile” con presenza di inquinanti costante.

Ma soprattutto quello che emerge è che i siti fossili attuali sono solo una parte del problema. Quelli in costruzione o ancora progetti su carta sono 3.507. Se venissero completati, ai 2 miliardi a rischio già adesso si aggiungerebbe un ulteriore mezzo miliardo di nuove persone esposte.

Prima o poi tutti saremo vicini a impianti di questo tipo, e quindi torna alla mente quanto detto dal leader indigeno Raoni:

Voi, non indigeni, forse avreste dovuto ascoltare e pensare ai vostri figli, pensare ai vostri nipoti, affinché la foresta potesse vivere e contribuire alla vita delle nuove generazioni.

L’appello è rivolto a Lula e al popolo brasiliano, ma anche ai leader presenti alla COP30, e in qualche modo è rivolto a tutti noi che, con le nostre scelte quotidiane, dalle più piccole alle più importanti come quelle del voto di rappresentanza, stiamo camminando verso o contro il collasso climatico.