Nel suo messaggio all’Assemblea di Federacciai dello scorso 10 novembre, Giorgia Meloni ha annunciato il cosiddetto Piano Transatlantico. Per capire meglio di cosa si tratta è necessario ricordare il quadro internazionale recente. Nell’estate del 2025 l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno infatti pubblicato una dichiarazione congiunta che apre la strada a un’intesa strutturata su misure coordinate per contrastare pratiche commerciali scorrette e rafforzare le catene di approvvigionamento.
Fra le opzioni sul tavolo, meccanismi di gestione delle importazioni basati su quote tariffarie, cooperazione su controlli doganali e norme tecniche e una più stretta armonizzazione delle misure contro l’evasione tariffaria. Queste linee guida costituiscono il perimetro operativo entro il quale Meloni inserisce il suo Piano.
Ciò che rende urgente un intervento è la decisione del governo statunitense di aumentare i dazi su metalli come acciaio e alluminio e ora anche rame e derivati, rischiando di spostare i flussi commerciali, influenzare i prezzi delle materie prime e creare squilibri nelle filiere produttive europee, con impatti diretti su industria siderurgica, automotive, macchinari e infrastrutture.
Cos’è e cosa prevede il Piano Transatlantico
Dal messaggio della premier a Federacciai si evince che l’obiettivo del Piano è creare un quadro di protezione comune contro la sovracapacità, fondato su regole condivise per l’accesso ai mercati e per la gestione di eccedenze produttive a livello globale.
Il Governo vuole quindi cercare soluzioni negoziali con Washington che evitino l’escalation dei dazi Usa. Inoltre, si intende anche potenziare la politica industriale europea, così da ridurre la vulnerabilità dell’industria alle oscillazioni delle materie prime a livello globale.
Un’intesa transatlantica potrebbe evitare ritorsioni generalizzate e offrire alle imprese europee regole più prevedibili.
Ad esempio, un sistema con quote tariffarie (TRQ) favorirebbe esportazioni limitate e sostenibili verso gli Stati Uniti a fronte di controlli sul flusso di materiale a basso costo proveniente da mercati con sovvenzioni o sovracapacità. E la cooperazione sul contrasto alla concorrenza sleale potrebbe colpire più efficacemente pratiche non conformi, rispetto a misure unilaterali e instabili.
I prossimi step
Il percorso di approvazione del piano è pieno di ostacoli politici e tecnici. Dal lato americano, gli interessi dei produttori di acciaio locali e di settori che beneficiano di protezioni forti non si cancellano facilmente.
Dall’altro, molti Paesi europei temono che un accordo con Washington possa implicare concessioni su altri fronti commerciali o normativi.
In più, le soluzioni richiedono definizione precisa delle categorie merceologiche, criteri oggettivi per identificare sovvenzioni, sistemi di monitoraggio delle importazioni e procedure di revisione periodica. Insomma, uno sforzo amministrativo notevole.
Per l’Italia, però, l’urgenza è pratica. Le imprese siderurgiche e il tessuto industriale che dipende dall’acciaio e dall’alluminio rischiano di trovarsi schiacciati fra costi energetici, concorrenza di prodotti a basso prezzo e l’impatto dei dazi Usa sui mercati finali.
Il segnale di Meloni è dunque anche politico, oltre che economico.
Chiedere all’Europa di non limitarsi alle contromisure tariffarie, ma di dotarsi di una strategia industriale coerente, ciù investimenti in decarbonizzazione della siderurgia, incentivi per il riciclo dello scarto metallico, semplificazione per la filiera dell’innovazione nell’acciaio.
In ogni caso, se il Piano Transatlantico dovesse tradursi in un accordo operativo Ue-Usa, è probabile che si apra una fase transitoria nella quale saranno negoziate quote e criteri di preferenza.
Se le trattative fallissero, rimarrebbe la necessità di misure europee decisive e misure compensative, sostegno agli investimenti per la transizione verde dell’acciaio e politiche per garantire l’accesso a materie prime strategiche.