Hanno già conquistato molti investitori italiani ma, per la maggioranza dei nostri connazionali, sono ancora oggetti misteriosi tutti da scoprire. Stiamo parlando degli Exchange traded fund (Etf), una categoria di prodotti finanziari in cui i risparmiatori di tutta Europa, secondo i dati della società di analisi e consulenza Morninigstar, hanno investito finora oltre mille miliardi di euro, di cui quasi un centinaio soltanto Italia. Si tratta, nello specifico, di una particolare categoria di fondi di investimento che, come tutti i fondi, hanno un portafoglio molto diversificato, composto da decine o centinaia di titoli diversi.
Qualunque risparmiatore può sottoscrivere delle quote di un Etf versando una somma denaro, che poi finisce in un patrimonio molto più grande, di centinaia e centinaia di milioni. Quest’ ultimo può essere poi investito in azioni quotate sulle borse internazionali, per esempio a quella di Milano così come a Londra o Wall Street, oppure in obbligazioni e titoli di stato con diverse scadenze. Quando i mercati finanziari sono in rialzo, il valore dei titoli inclusi nel portafoglio dei fondi e degli Etf cresce, facendo salire anche il valore di ogni singola quota. Chi la possiede e l’ha comprata a un prezzo più basso può dunque farsi liquidare la somma investita in precedenza, ottenendo così un guadagno. Viceversa, se i mercati finanziari sono in ribasso e il valore dei titoli inclusi nel portafoglio del fondo scende, chi ne ha a sottoscritto le quote subisce una perdita.
Uno dei tratti salienti dei fondi d’investimento e degli Etf è dunque quello di diversificare e mitigare il rischio, consentendo anche a un risparmiatore che dispone di piccole somme di denaro, qualche centinaia o migliaia di euro, di puntare su tanti strumenti finanziari diversi, anche su quelli quotati in mercati lontani e non facilmente accessibili dall’Italia. Fatta queste premesse, un interrogativo è d’obbligo: cosa distingue gli Etf, apparsi per la prima volta in Italia nel lontano 2002, dai più tradizionali fondi comuni d’investimento, venduti dalle banche sin dagli anni ‘80 del secolo scorso?
Exchange traded fund e fondi comuni di investimento: le differenze
La differenza più significativa è nella modalità con cui viene costruito il portafoglio. Per i tradizionali fondi comuni esiste infatti un gestore, cioè un professionista degli investimenti che, seppur seguendo criteri prestabiliti, seleziona di volta in volta i titoli che ritiene vincenti, in modo da massimizzare i rendimenti ottenuti. Per gli Etf, invece, la figura del gestore è di regola assente. Il portafoglio viene infatti costruito a priori ricopiando la composizione di un listino di riferimento, per esempio l’indice Ftse Mib della Borsa di Milano o l’S&P 500, che raggruppa le più importanti azioni quotate a Wall Street. Non essendoci un fund manager (che di solito è ovviamente ben remunerato per il lavoro che svolge), gli Etf sono detti anche fondi a gestione passiva e sono considerati prodotti finanziari low cost. Sono cioè soggetti a costi e commissioni ben più basse rispetto a quelle applicate invece sui fondi a gestione attiva. Non va infatti dimenticato che su tutti i prodotti del risparmio gravano commissioni e spese varie che non vanno mai ignorate, poiché incidono spesso sui rendimenti percepiti dagli investitori. Nel caso dei fondi comuni, per esempio, la società che li gestisce (che si chiama sgr-società di gestione del risparmio) trattiene per sé ogni anno una parte del patrimonio del fondo, per esempio l’1 o 2%.
Ci sono poi spese amministrative varie, a cui possono aggiungersi anche delle commissioni di qualche punto percentuale per le operazioni di sottoscrizione e di rimborso, applicate ogni volta che un risparmiatore sottoscrive o si fa liquidare le quote del fondo. A prima vista si tratta di piccoli prelievi ma, a ben guardare, questi balzelli possono appunto rosicchiare buona parte dei rendimenti. Basti pensare al caso dei fondi obbligazionari, il cui portafoglio è composto di bond e titoli di stato che oggi, complice il calo dei tassi di interesse, offrono rendimenti assai risicati, vicini o addirittura inferiori allo 0%. Per questa tipologia di prodotti finanziari, la presenza di una commissione di gestione di appena l’1% annulla di fatto tutti i rendimenti potenziali dei titoli e dunque anche la convenienza dell’investimento nel fondo obbligazionario.
Etf, quanto costano e come si acquistano
Nel caso degli Etf, però, le commissioni che gravano sul patrimonio investito sono assai più contenute rispetto a quelle dei tradizionali fondi comuni. Di solito non superano l’1% e, nel caso degli exchange traded fund obbligazionari, scendono al di sotto dello 0,5%, attestandosi in Europa su una media dello 0,27%. A queste voci di spesa, si aggiungono altre commissioni di qualche decimale di punto, richieste dalle banche e da qualsiasi altro intermediario finanziario per ogni operazione di acquisto e vendita delle quote. Va sottolineato infatti che un’altra caratteristica peculiare degli Etf, che li distingue dai tradizionali fondi comuni, è di essere negoziabili in borsa. Le quote possono infatti essere comprate e vendute come un qualsiasi titolo azionario sui principali listini internazionali, anche su quello milanese di Piazza Affari, durante il consueto orario di contrattazioni giornaliere. Il che rende di solito questi prodotti finanziari liquidabili molto più velocemente dei fondi comuni, le cui quote possono invece essere sottoscritte e liquidate dopo aver inviato un apposito ordine alla banca, che lo gira alla società di gestione, la quale richiede a sua volta l’attesa di qualche giorno (o addirittura di più una settimana) prima di rendere disponibili le somme di denaro.
Exchange traded fund: dove si acquistano
Gli Exchange traded fund sono quotati su gran parte delle borse internazionali. A Piazza Affari ci sono più di mille prodotti, negoziabili su un particolare segmenti di mercato chiamato EtfPlus. Consentono di puntare su centinaia di indici , rappresentativi di azioni, obbligazioni, ma anche tassi di cambio valute e persino di panieri di materie prime (in questo caso gli Etf si chiamano Etc-Exchange Traded Commodities). Si può comprare per esempio un Etf per investire sulle azioni cinesi, sui buoni del tesoro europei o americani, sui titoli del settore tecnologico o dei paesi emergenti. Per accedere alle negoziazioni basta rivolgersi alla propria banca o al proprio intermediario di fiducia e aprire un deposito titoli, lo stesso che serve per acquistare azioni e obbligazioni sul mercato. Ecco allora che sorge spontaneo un altro interrogativo: è consigliabile comprare un fondo comune d’investimento a gestione attiva o è meglio un exchange traded fund a gestione passiva? Su questo punto, nell’industria finanziaria ci sono due “scuole di pensiero”.
La prima è quella di chi ritiene che gli Etf siano in grado di rimpiazzare quasi completamente i fondi tradizionali tra i risparmi di una famiglia, principalmente per una ragione: anche se i gestori dei fondi cercando di battere i rendimenti medi del mercato, selezionando i titoli vincenti, difficilmente riescono a raggiungere il loro scopo. Diverse analisi, come quelle dell’agenzia internazionale S&P, dimostrano infatti che circa la metà dei gestori non riesce ad avere performance superiori ai rispettivi benchmark, cioè agli indici presi a riferimento per costruire il portafoglio e valutare la validità della strategia d’investimento. C’è tuttavia anche chi pensa il contrario, cioè che la scelta di un Etf significhi sì risparmiare sui costi, ma voglia anche dire rinunciare ad avere rendimenti superiori alla media del mercato: un risultato che invece un bravo gestore è sempre in grado di raggiungere.
Etf: tutti i rischi per chi li acquista
Comunque la si pensi, non si può negare che gli Etf siano dei prodotti finanziari sempre più in voga tra gli investitori italiani. Per chi fosse intenzionato ad acquistarli senza però avere particolare dimestichezza con la finanza, un’avvertenza è d’obbligo: il funzionamento degli exchange traded fund sopra descritto riguarda in realtà soltanto i prodotti più semplici, che seguono in maniera lineare un indice di riferimento. Negli ultimi anni, però, sono apparsi sul mercato anche molti prodotti dalla struttura un po’ più complessa, cioè Etf costruiti utilizzando prodotti e che hanno il cosiddetto effetto-leva, un meccanismo che consente di amplificare i guadagni (ma anche le perdite) dell’indice sottostante. Se quest’ultimo guadagna o perde il 10%, con gli Etf “ a leva” il valore della quota oscilla molto di più, per esempio del 20 o 30%. Tutta roba da maneggiare con cura, non adatta ai neofiti ma soltanto agli investitori più navigati.
Etf, chi guadagnato di più nell’ultimo anno
Tra gli oltre mille Etf quotati alla borsa di Milano, il più redditizio dell’ultimo anno è quello della casa è un prodotto della casa d’investimenti americana Invesco che investe in azioni di società con un business legato alla Blockchain, la tecnologia che sta alla base delle criptovalute come i Bitcoin e che, aldilà delle sua applicazioni al mondo delle monete virtuali, sembra destinata ad avere effetti dirompenti anche nelle transazioni finanziarie e commerciali. Si chiama Invesco Elwood Global Blockchain Ucits Etf e in 12 mesi ha guadagnato oltre il 160%. Ovviamente non è detto che le performance del passato vengano replicate anche in futuro. Anzi, di solito, il consiglio dei consulenti finanziari è quello di non concentrare una quota eccessiva della propria ricchezza su un singolo prodotto ma diversificare il più possibile il proprio portafoglio. Non esiste solo la ricerca del rendimento, insomma, ma anche la necessità di difendere il capitale.
A cura di Andrea Telara, Giornalista economico finanziario