Senza paura di esagerare, la storia del crowdsourcing è un po’ la storia stessa dell’umanità, considerando che la specie umana è assolutamente una di tipo sociale. Nell’antichità, esistono innumerevoli esempi di sforzo collettivo e, in un certo senso, potremmo dire che la costituzione iniziale di una società e delle sue leggi è, di fatto, un atto di crowdsourcing. Facendo un salto ai giorni nostri, si tratta di una nuova forma di business con la possibilità di stravolgere il mercato.
Per altro, dalle forme molteplici. Una vera e propria “saggezza delle folle” che fonda le sue radici nella ricerca sull’innovazione aperta e sulla co-creazione e che si occupa dell’approccio in base al quale un gran numero di individui – la folla, per l’appunto – può partecipare attivamente ai processi di innovazione di un’impresa, permettendo alla stessa azienda di accedere a informazioni e conoscenze diffuse tra molti utenti o attori.
Indice
Crowdsourcing: cos’è
In economia, il crowdsourcing, che deriva dalle due parole inglesi crowd, “folla”, e sourcing, vale a dire “origine”, è lo sviluppo collettivo di un progetto, generalmente su base volontaria o su invito, da parte di una moltitudine di persone esterne all’azienda ideatrice. Questo modello operativo di business è reso possibile grazie alla diffusione di Internet e delle sue infinite potenzialità.
Come esternalizzazione di una parte delle proprie attività, un’azienda o un’istituzione va ad affidare la progettazione, la realizzazione o lo sviluppo di un progetto, oggetto o idea a un insieme indefinito di persone non organizzate precedentemente. Per fare qualche esempio, alla collettività può essere richiesto di portare avanti un’attività di progettazione, sviluppare tecnologie innovative o un algoritmo e ancora aiutare a registrare, sistematizzare o analizzare grandi quantità di dati.
Per andare nel concreto, la celebre enciclopedia online Wikipedia viene considerata da molti un esempio di crowdsourcing volontario. Altri esempi comuni e di assoluto successo sono i portali che accettano recensioni libere, sia nel campo dei prodotti, come può essere ad esempio il colosso dell’eCommerce Amazon, che dei servizi, come per esempio TripAdvisor.
Il termine crowdsourcing, invece, venne utilizzato per la prima volta nel 2006 dal giornalista americano Jeff Howe in un articolo pubblicato sulla rivista Wired, dal titolo The Rise of Crowdsourcing, che lo definisce come “l’atto di un’impresa o di un’istituzione che considera un’attività o funzione precedentemente eseguita dai dipendenti interni e la esternalizza in una rete non definita (e generalmente grande) di persone in forma di una chiamata aperta. Questo atto può assumere la forma di produzione di pari livello (‘peer-production’, quando il lavoro viene eseguito in collaborazione), ma è anche spesso intrapreso da singoli individui (esperti o novizi). Il prerequisito cruciale è l’uso della chiamata aperta e della grande rete di potenziali sforzi”.
Per farla più semplice, secondo Howe la vera forza del crowdsourcing si basa sul concetto che, siccome si tratta di una richiesta aperta a più persone, si potranno riunire quelle più adatte a svolgere determinate attività, a risolvere problemi di una certa complessità e a contribuire con idee nuove e sempre più utili. Grazie ai recenti sviluppi tecnologici, si è assistito a una grande diminuzione dei costi dei computer e di altri apparecchi digitali, che ha portato a una riduzione del divario fra professionisti e amatori del settore. In questo modo, le aziende hanno la possibilità di sfruttare il talento della grande massa di utenti, per le applicazioni più disparate.
Ad oggi, nonostante le controversie in merito, per una definizione completa del fenomeno si può fare riferimento a quella dell’Università Cattolica e Politecnica di Valencia, per cui è considerata un’attività partecipativa online nella quale un’azienda propone, mediante un annuncio aperto e flessibile, la realizzazione libera e volontaria di un compito specifico.
Il compito è di complessità e modularità variabile e, per portarlo a termine, il gruppo di riferimento deve partecipare con il proprio lavoro, denaro, conoscenze e/o esperienza, implicando sempre un beneficio per ambe le parti. In cambio della sua partecipazione, l’utente otterrà il soddisfacimento di una concreta necessità, economica, di riconoscimento sociale, di autostima o di sviluppo di capacità personali, mentre il crowdsourcer otterrà e utilizzerà a proprio beneficio il contributo offerto dall’utente.
Modalità di crowdsourcing
Il funzionamento del crowdsourcing è piuttosto basilare, paragonabile a un vero e proprio contest. Si può equiparare, in qualche modo, a un approccio al problem solving che tiene conto del potere delle masse, considerate “forza lavoro”, e del loro sapere. All’interno dei suoi processi, è poi possibile individuare diverse modalità che si riferiscono a questo stesso approccio: a partire dal crowdfunding, forma di finanziamento collettivo in cui, se la campagna ha successo, l’investitore riceve in cambio una ricompensa o un titolo di partecipazione societaria.
C’è anche il crowdcreation, vale a dire il processo di creazione collettiva tipico di attività digitali e creative che favorisce la risoluzione di problemi complessi. Il crowdtesting, invece, prevede il test di applicazioni mobile e web prima dell’eventuale lancio sul mercato, mentre il crowdmapping è una metodologia cartografica di nuova concezione che si serve della disponibilità di residenti e utenti. A chiudere, abbiamo poi il crowdvoting, che richiede sia la forza lavoro che la saggezza delle masse per affrontare problemi la cui soluzione emerge dall’intelligenza collettiva dei contribuenti.
In ogni caso, è opportuno ricordare che il crowdsourcing non rappresenta solo un modello di business per le imprese, ma può essere considerato anche un potenziale strumento di problem solving dal basso costo e dai tempi contenuti. L’esempio più famoso ed evidente di crowdsourcing è sicuramente quello rappresentato dalla già citata Wikipedia.
Grazie al contributo gratuito di una imponente comunità di utenti, il portale si è imposto come la più grande opera enciclopedica mai scritta dall’umanità, facendo riferimento a un prodotto no-profit costruito da volontari. In ambito aziendale, di contro, è relativo alla disponibilità per le aziende di una “folla” di freelance che mettono a disposizione idee, strumenti e competenze, spesso a un prezzo di mercato assai competitivo.
Crowdsourcing: vantaggi e svantaggi
Il crowdsourcing, come tutti i modelli imprenditoriali, mette sul piatto una serie di vantaggi accompagnati da svariati svantaggi. Tra i primi, spicca innanzitutto la possibilità di scelta, senza doversi limitare al metodo di lavoro di una sola agenzia freelance, assieme all’abbattimento dei costi. Affidarsi a una piattaforma di crowdsourcing permette infatti di valutare più proposte e preventivi, in modo da scegliere il miglior rapporto qualità/prezzo. Non solo, questo tipo di servizio permette di crearsi una rete di contatti: un fornitore che è stato scartato per una particolare esigenza potrebbe rivelarsi utile in futuro per un progetto diverso, andando a fare parte di una lista di professionisti e aziende che operano in un determinato settore.
L’ultimo vantaggio, ma non per importanza, è quello di poter risparmiare tempo prezioso nella consultazione dei preventivi, con le organizzazioni che vengono a conoscenza diretta dei desideri dei consumatori mentre la comunità sviluppa un senso di appartenenza all’organizzazione. Tra le criticità, va considerato il fatto che assai di frequente i partecipanti ai contest sono persone alle prime armi che non hanno ancora una spiccata professionalità, e propongono così lavori di bassa qualità. In più, la fitta rete di professionisti aumenta la concorrenza, diminuendo di riflesso i compensi medi.
Crowdsourcing: esempi e piattaforme in Italia
Condivisione, trasparenza e networking sono le tre parole d’ordine che caratterizzano il crowdsourcing e il mondo della sharing economy nella sua totalità. In Italia, sono attualmente disponibili diverse piattaforme di crowdsourcing, che fanno propri questi principi e li applicano sfruttando la rete. Un esempio concreto è quello della tedesca Twago, che consente due livelli di utilizzo, quello di fornitore e quello di azienda cliente, sia con un account gratuito limitato che con uno premium a pagamento.
Protagonista di un’incredibile crescita negli ultimi anni è poi la piattaforma Starbytes, affiancata da Zooppa, forse la più grande tra quelle attive nel Bel Paese. Tra i suoi fruitori, ricordiamo colossi del calibro di Samsung, Amazon, Telecom Italia, Siemens, e persino il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
BestCreativity è invece una piattaforma di crowdsourcing volutamente orientata solo al design, sia web che graphic, e al naming. Si presenta molto semplice da utilizzare, proponendosi quindi particolarmente adatta per i freelance alle prime armi, che vogliono iniziare a muovere i primi passi e a confrontarsi con il mondo del lavoro su commissione, di certo non abbordabile per tutti. In questo caso, l’azienda crea un progetto, andando ad indicare tutto ciò di cui ha bisogno affinché sia portato a termine, come vuole che sia svolto il lavoro e quale budget è disposta a investire. Nel frattempo, ogni freelance interessato può presentare la sua proposta e sperare di essere scelto per ottenere tutti i benefit collegati.
Un ulteriore esempio in questo ambito rivoluzionario è pure quello della piattaforma chiamata InnoCentive, che si presenta come un marketplace di open innovation all’interno del quale le organizzazioni possono lanciare competizioni aperte per trovare una soluzione a determinate problematiche.
Allo stesso tempo, è da sottolineare che il crowdsourcing non perde la sua natura di forma di lavoro esternalizzato e, come nel caso specifico di Amazon Mechanical Turk, consente di risolvere problemi particolarmente complessi facendo ricorso a intelligenze umane che eseguono compiti che i computer, ad oggi, non sono in grado di svolgere.