Agenzia delle Entrate contro Google, 1 miliardo di evasione fiscale

Ancora una volta il Fisco italiano ha messo nel mirino Google e le proprie manovre fiscali: stavolta la cifra contestata è triplicata

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Luca Incoronato

Giornalista

Giornalista pubblicista e copywriter, ha accumulato esperienze in TV, redazioni giornalistiche fisiche e online, così come in TV, come autore, giornalista e copywriter. È esperto in materie economiche.

Si torna a parlare della gestione fiscale di Google. Il colosso è nuovamente nel mirino dell’Agenzia delle Entrate. Sono trascorsi 7 anni dal pagamento di più di 300 milioni di euro e ora la cifra è triplicata. Il Fisco italiano infatti contesta un’evasione pari a circa un miliardo di euro.

Fisco contro Google

Ciò che viene contestato a Google, nel dettaglio, è l’esistenza di un’organizzazione immateriale stabile. Ciò lascia andare la mente al caso Netflix e ai 55,8 milioni di euro versati nel 2022. L’azione dell’Agenzia delle Entrate si basa sulle investigazioni attuate dal Nucleo economico-finanziario della Guardia di Finanza di Milano, stando a quanto riportato da Il Sole 24 Ore.

Proviamo però a capire di cosa stiamo parlando, dal momento che questo caso potrebbe essere il secondo di tanti. Non è da escludere, infatti, che la contestazione di una stabile organizzazione immateriale possa colpire ulteriori colossi.

È bene sottolinearlo, nessuno accusa Google di non star pagando le tasse in sé, ma di averlo fatto in maniera ridotta rispetto a quanto realmente dovuto allo Stato italiano. Conviene sfruttare il caso Netflix per spiegare questo attuale, dal momento che quella vicenda è ormai conclusa (trovato un accordo tra le parti) e ha funto da apripista.

L’intesa trovata con la piattaforma streaming è stata storica, dal momento che per la prima volta al mondo era stata contestata l’esistenza di un’organizzazione stabile occulta a un’azienda con zero dipendenti sul territorio nazionale. Il punto di svolta in quel caso è stata la rimozione dell’uomo dall’equazione. Per meglio dire, il soggetto umano ha perso la propria crucialità nell’individuazione di una stabile organizzazione occulta. Ciò vuol dire che l’assenza di dipendenti assunti sul territorio italiano non rappresenta una tutela o giustificazione.

Nel caso specifico l’attenzione è stata rivolta a più di 350 server distribuiti in Italia, attraverso i quali passava la totalità del traffico video. Una rete tecnologica esclusiva, dunque. È stato poi possibile dimostrare come la rete fosse essenziale per diffondere i video acquistati in abbonamento dai clienti italiani.

Stabile organizzazione materiale

In assenza di una sede fissa in Italia, per Netflix hanno fatto fede cavi, computer, server, algoritmi e fibre ottiche. Un insieme che ha rappresentato perfettamente il concetto di stabile materiale. La verifica fiscale aveva dunque evidenziato basi imponibili Ires e Irap non dichiarate dal 2015 al 2019. Il ragionamento, per quanto riguarda Google, è di fatto identico.

Come detto, la questione non è nata affatto oggi. Il primo caso era scoppiato nel 2016, quando si era gettata luce sui soldi versati a Google dagli inserzionisti pubblicitari italiani. Tutto finiva alle Bermuda, passando però da società irlandesi e olandesi.

Si contestava la costituzione di una stabile organizzazione occulta di tipo personale, con riferimento al periodo dal 2009 al 2013. In assenza dei margini per poter contestare le conclusioni del Fisco, si era raggiunto un accordo economico pari a 306,6 milioni di euro. La strategia attuata mirava a creare una sorta di “finzione societaria”, con la filiale italiana a ricoprire un ruolo specifico in tutto ciò. Parliamo di Google Italy, Srl milanese controllata da Google International Llc. La filiale aveva come oggetto sociale “la prestazione di servizi di consulenza e assistenza nelle attività di supporto alla vendita, nel settore del marketing”. Stando alla Guardia di Finanza, però, i ruoli sarebbero stati ben differenti, vantando soprattutto una stabile organizzazione, come riportato da Il Sole 24 Ore.

Il sistema Google

Nello specifico i contratti con i clienti italiani, che a livello formale erano definiti in Irlanda, venivano in realtà preparati e curati da dipendenti della società di Milano. Il tutto veniva poi inviato alla Google Ireland Ltd, dove venivano soltanto firmati e rispediti in Italia. Di fatto una stabile organizzazione non dichiarata che ha proceduto in queste operazioni per anni.

Il sistema era però ben più complesso. Di fatto Google Ireland Ltd doveva pagare delle royalties alla seconda società irlandese di proprietà, la Google Ireland Holding. Quest’ultima era infatti in possesso ufficialmente della proprietà intellettuale dell’algoritmo del motore di ricerca. A che pro? La generazione di ulteriori spese riduceva la base imponibile fiscale, consentendo di pagare meno tasse possibile in Irlanda. La seconda società dirottava poi gli utili alle Bermuda, dove non pagava imposte. Un tesoretto da 50 miliardi di dollari esentasse.

A ciò si aggiungeva un passaggio in Olanda. Al fine di evitare il pagamento della ritenuta d’acconto irlandese, pari al 12,5%, i ricavi di Google non andava direttamente dalla prima alla seconda filiale. Era stata studiata una deviazione verso la Google Netherlands Holdings (che per la Finanza era una scatola vuota). Da qui i soldi venivano girati a Dublino.

Un giro di soldi dall’Italia all’Irlanda, passando poi per l’Olanda e tornando sul territorio irlandese, fino a terminare la propria corsa, al sicuro fiscale, alle Bermuda. L’inchiesta italiana è stata cruciale sotto questo aspetto e, in seguito alla stessa, sono scaturiti molti controlli in altri Paesi. Quella complessa struttura è stata infine smantellata. Ciò non vuol dire, però, che i meccanismi in atto per guadagnare, pagando meno tasse, siano conclusi.