22 giugno 2000. Una data fondamentale nella storia della genetica: il Genome Bioinformatics Group dell’Università della California Santa Cruz, composto da Jim Kent, Patrick Gavin, Terrence Furey e David Kulp completa il Progetto Genoma Umano (Human Genome Project, HGP), progetto di ricerca scientifica internazionale che ha come obiettivo principale era quello di determinare la sequenza delle coppie di basi azotate che formano il Dna e di identificare e mappare i geni del genoma umano dal punto di vista sia fisico sia funzionale.
Da quel momento e negli anni immediatamente successivi la ricerca medico-scientifica ha compiuto enormi e progressivi passi avanti nello sviluppo di farmaci innovativi che potessero “bersagliare” selettivamente solo le cellule tumorali. E sono giunti grandi risultati nella sfida al cancro. Perché “prendendo” esattamente la mira grazie ai test genetici sulle cellule del tumore si possono offrire trattamenti appropriati ad ogni paziente.
L’esempio più classico è quello del gene “Jolie”. Grazie alla ricerca genetica e all’aumento dei rischi definito in un piccolo tratto del patrimonio genetico, si può identificare di un difetto genetico specifico (l’alterazione dei geni BRCA1 e BRCA2) e quindi indicare caso per caso il trattamento più indicato per ogni donna. Ma sempre di più, e per diversi tipi di tumori, si trovano condizioni scritte nel Dna capaci di indirizzare le cure, con un risparmio dei costi per i sistemi sanitari e con una maggior precisione (e spesso anche una maggior qualità di vita, oltre al miglioramento della sopravvivenza) per il/la paziente.
Ad ognuno la sua terapia non è quindi più solo un sogno. Ma una realtà. Che va sempre guidato dal medico, per identificare i test che servono davvero. Visto che ci stiamo avvicinando sempre più alla crescita che si prevedeva nel 2020 per questo mercato, quando si immaginava nei futuri quattro – cinque anni un fatturato destinato ad oltrepassare i 17 miliardi di dollari sui test genetici e i 35 miliardi per il settore più ampio che vede implicati anche la genomica ed i servizi. Crescite a due zeri, insomma, con una tendenza ad un aumento sempre più significativo e non solo per identificare le malattie ma anche per curarle al meglio sulla base delle caratteristiche delle cellule. Insomma: si va oltre quanto sembrava già un sogno raggiunto con il termine del progetto Genoma Umano. Ed ora, appare sempre più importante integrare le informazioni su scala mondiale. Su questo fronte in futuro la ricerca dirà sempre di più. Grazie alla pangenomica, che “incrocia” i dati su diverse popolazioni. Per svelare nuovi segreti del Dna e sviluppare trattamenti sempre più su misura.
Indice
Cosa è e cosa porterà la pangenomica
La pangenomica rappresenta un approccio che potrebbe determinare un nuovo concetto di sanità pubblica e di ospedale tecnologico, dove le scelte terapeutiche si potrebbero basare anche sull’assetto genomico del singolo paziente. Punta ad aumentare le informazioni sul genoma individuale per un approccio medico veramente personalizzato, influendo sulla cura ma anche la prevenzione delle malattie. Un genoma è l’insieme delle istruzioni che il Dna utilizza affinché ogni creatura vivente si sviluppi e funzioni.
“Le sequenze del genoma differiscono leggermente tra gli individui. Nel caso degli esseri umani, i genomi di due persone sono, in media, identici per oltre il 99%. Le piccole differenze contribuiscono all’unicità di ogni persona e possono fornire informazioni sulla sua salute, aiutando a diagnosticare una malattia, prevedere gli esiti e stabilire i trattamenti medici – ha spiegato Marco Seri, Direttore Scientifico IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, Policlinico di Sant’Orsola in occasione di un incontro pubblico organizzato dall’Accademia delle Scienze presso la Johns Hopkins University a Bologna. Per comprendere queste differenze genomiche, è necessario avere una sequenza di genoma umano di riferimento da utilizzare come standard. La sequenza originale del genoma umano di riferimento ha quasi 20 anni ed è stata regolarmente aggiornata man mano che la tecnologia ha apportato nuove conoscenze. Tuttavia, il suo apporto può risultare limitato nella rappresentazione della diversità della specie umana, poiché consiste di genomi di sole 20 persone circa e la maggior parte della sequenza di riferimento, circa il 70%, proviene da una sola persona, un americano con origini europee e africane. Il nuovo ‘pangenoma’ include le sequenze del genoma di 47 persone provenienti da Africa, Asia, Americhe ed Europa, e l’obiettivo dei ricercatori è quello di aumentare le sequenze del genoma a 350 persone. Dal momento che ognuno ha un genoma unico, l’utilizzo di un genoma di riferimento basato prevalentemente su una singola persona può portare a disuguaglianze nelle analisi genomiche alterando l’interpretazione e di conseguenza, per esempio, la previsione di una malattia genetica. In altre parole, così sarà possibile quindi avere a disposizione per ogni individuo una mappa completa delle sue criticità, e di tutte le sue specificità nel reagire”.
Ma il nostro Sistema Sanitario Nazionale riuscirebbe a sostenere i costi di questa nuova visione? “Se da una parte dobbiamo tenere in considerazione i costi legati alla produzione e conservazione del dato – conclude Seri – dall’altra dovremmo considerare i risparmi dovuti sia alla riduzione dei costi legati a terapie non appropriate sia a quelli inerenti percorsi diagnostici spesso molto lunghi. Inoltre dobbiamo considerare i risparmi per ricoveri e cure continuative di quei pazienti affetti da patologie complesse e/o croniche che potevano essere prevenute”.
Perché è importante il Dna delle popolazioni
Come Indiana Jones del Dna, negli anni scorsi gli scienziati hanno puntato a riconoscere la popolazione ad alto rischio o magari protetta per alcune malattie, per studiarne il materiale genetico e portarlo nel centro operativo delle grandi strutture di ricerca. In questo modo si punta a individuare le buone o cattive predisposizione genetiche per guidare la messa a punto di farmaci su misura.
Questo è quanto avvenuto ad esempio in Islanda, dove le persone sono molto simili, con occhi azzurri e capelli biondi. Una sorta di “stimmata” invisibile che si trasmette invariabilmente di generazione in generazione, e sembra riportare, risalendo nel tempo, fino alle caratteristiche del mitico condottiero Erik il rosso. Questa situazione deriva dal fatto che l’isola è rimasta lontana per secoli dal resto della civiltà, e quindi non si sono avuti flussi migratori tali da modificare l’assetto genetico della popolazione. Ma non basta.
In Nuova Guinea alcuni genetisti qualche tempo fa pochi anni fa sono arrivati a studiare la tribù degli hagahai, che vive sugli altipiani, per capire perché questi indigeni siano naturalmente immunizzati nei confronti di uno speciale virus della leucemia, del tutto simile a quello dell’Aids.
E anche la tribù degli Hopi, in Arizona, presenta caratteristiche che la rendono importante per lo studio dell’albinismo. Il tutto senza dimenticare le ricerche condotta a Tristan de Cunha, che fa parte dell’arcipelago più sperduto del mondo, in mezzo alle tempeste dell’Atlantico meridionale. Qualche tempo fa, notando che moltissime persone soffrono di asma, si è indagata l’origine genetica del fenomeno. Tutto potrebbe risalire ad un sottufficiale inglese, William Glass, che requisì le isole nei primi anni del 1800.
Le diverse mutazioni nel Dna
Quando si parla di tumore e di test genetici occorre fare chiarezza, soprattutto in chiave di approccio nei confronti dei familiari di soggetti che presentano la malattia. In genere, quindi nella maggior parte dei casi, il tumore nasce da mutazioni che si originano nel corso dell’esistenza della persona, quindi non sono “scritte” nel suo Dna ma interessano direttamente alcune cellule. Queste vengono definite mutazioni somatiche. La loro esistenza è limitata al singolo soggetto e non possono quindi essere trasmesse.
Diversa è la situazione quando si parla di mutazioni germinali. In questo caso le alterazioni del Dna sono presenti dalla nascita e possono essere alla base di un numero più basso di tumori, calcolato in circa il 5-10% del totale. Queste mutazioni, facendo parte del corredo genetico del soggetto fin dalla nascita, possono ovviamente essere trasmesse ai figli. Incrementano il rischio di sviluppare tumori e per questo i medici, in base al tipo di tumore individuato possono procedere a valutare la situazione nella famiglia.
Un esempio: il tumore della mammella, quando e a chi proporre il test?
Sul Journal of Clinical Oncology sono state pubblicate, dopo revisione sistematica della letteratura scientifica, le raccomandazioni della società scientifica ASCO insieme all’Associazione dei Chirurghi Senologi Americani.
“Dalla lettura dello studio emergono importanti novità sull’utilizzo dei test genetici – spiega Emanuela Lucci Cordisco, genetista medico e ricercatore dell’Università Cattolica di Roma e dirigente Medico presso il Policlinico Gemelli IRCSS di Roma. In primo luogo, gli oncologi americani hanno voluto rispondere a un quesito fondamentale: a chi proporre il test? Le raccomandazioni indicano che il test genetico sul sangue andrebbe offerto al numero più alto di persone con nuove diagnosi di cancro della mammella, in particolare alle donne fino ai 65 anni di età e non fino ai 40 anni come avviene oggi in Italia. È stata infatti sottolineata l’importanza di offrire una gestione clinica personalizzata ai/alle pazienti che presentano alterazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 per i quali l’utilizzo di un farmaco è in grado di fornire un vantaggio terapeutico”.
Per questo il test dovrebbe essere offerto al maggior numero di persone. Anche le persone in età superiore ai 65 anni o con vecchie diagnosi dovrebbero avere accesso al test genetico nel caso in cui questo fosse importante per la loro gestione clinica. Infine, in alcuni casi potrebbe essere utile proporre anche l’analisi di altri geni.
“Si tratta di un numero di persone che si fa sempre più elevato: la nostra opinione è che se anche nel nostro Paese sarà offerto un numero così massiccio di test servirà trovare un giusto compromesso tra l’aumento della soglia di età e il carico di lavoro dei laboratori – continua l’esperta. Questo aspetto indicato dall’ASCO pone la necessità di una riflessione a livello europeo e in ogni singolo paese per verificarne la possibilità di applicazione di questi grandi numeri a seconda delle peculiarità dei diversi sistemi sanitari nazionali.”
Come proporre il test
Quando si propone il test genetico germinale, cioè sul sangue, occorre far comprendere tutte le implicazioni. Il consenso informato richiesto prevede la firma del paziente che deve avere ben compreso la portata del test; per questo va previsto un counseling per il test genetico pre e uno post, come sottolineato dall’ASCO. Nel counseling pre-genetico vanno condivise le implicazioni del test, i possibili risultati, i suoi limiti e la utilità clinica con le implicazioni personali e familiari. Nel counseling post-test vanno discussi i risultati, i rischi ad essi associati, le modalità di prevenzione e le indicazioni per i familiari.
“È importantissimo discutere il risultato del test genetico per la predisposizione ereditaria che definisce anche il rischio per i familiari. E quanto ricordano i genetisti della società Italiana di Genetica Umana (SIGU). È importantissimo che i pazienti comprendano tutte queste implicazioni per poter trasmettere le indicazioni ai familiari. Ma attenzione. Con un utilizzo massiccio di test oncologici serviranno molti più genetisti formati in ambito oncologico, che approfondiscano anche la conoscenza delle terapie oggi a disposizione in un continuo percorso di aggiornamento.