Alzheimer, quanto pesano i fattori socioeconomici sul rischio di ammalarsi

Secondo una ricerca, fattori socioeconomici come istruzione, occupazione e ricchezza influenzano la probabilità di sviluppare un deterioramento cognitivo o demenza in età avanzata

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Federico Mereta

Giornalista scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica. Raccontare la scienza e la salute è la sua passione, perché crede che la conoscenza sia alla base di ogni nostra scelta. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Pubblicato: 15 Novembre 2024 17:21

Memoria che si offusca. Affetti che si annullano. La mente che appare lontana, quasi irraggiungibile. Come se una nebbia impercettibile cancellasse i ricordi, ricoprendo silenziosamente il cervello. Sono tante le metafore che possono spiegare quanto accade alla persona che affronta la malattia di Alzheimer.
Parlare di prevenzione è ovviamente difficile. Ma non si deve dimenticare, come ricordano le voci elencate nei potenziali fattori di rischio pubblicati recentemente dalla Lancet Commission, che occorre giocare d’anticipo. E non solo controllando l’eventuale diabete, l’ipertensione o altre cronicità che mettono a rischio il benessere generale. Sarebbe importante anche coltivare interessi e cultura fin dalla scuola e proteggere vista ed udito, per ridurre il rischio di isolamento. Perché anche le condizioni sociali ed educative della persona possono avere un ruolo.

Una ricerca su misura

Parlando di deterioramento cognitivo, a prescindere dalle cause del fenomeno (non bisogna mai dimenticare il peso di altre condizioni patologiche, magari di natura vascolare, sull’insorgenza di un quadro di questo tipo) arriva uno studio che dimostra l’importanza di fattori socioeconomici come istruzione, occupazione e ricchezza. Questi elementi influenzano la probabilità di sviluppare un deterioramento cognitivo o demenza in età avanzata.

A dirlo è una ricerca apparsa su Scientific Reports, condotta dagli esperti dell’University College di Londra guidati da Dorina Cadar e Aswathikutty Gireesh. Lo studio ha preso in esame 8.442 adulti di età pari o superiore a 50 anni in Inghilterra per 10 anni dal 2008/09 al 2018/19, proprio per valutare per esaminare in che modo i fattori socioeconomici all’inizio dello studio fossero associati a cambiamenti nello stato cognitivo. I ricercatori hanno monitorato come queste persone si muovevano tra vari stati: sano, deterioramento cognitivo lieve e demenza.
Hanno anche preso in considerazione la possibilità di inversioni, in cui gli individui miglioravano da uno stato di deterioramento cognitivo lieve a uno sano.

Le informazioni sui fattori socioeconomici sono state raccolte tramite un questionario autocompilato. Il deterioramento cognitivo è stato determinato utilizzando varie fonti, mediche, dai test cognitivi e dalla percezione del singolo oltre ovviamente a età genere e stato civile. Stimando il tempo trascorso in ogni stato cognitivo e la probabilità di transizioni a disturbi neurocognitivi come deterioramento cognitivo e demenza, i ricercatori sono stati in grado di ottenere una comprensione completa di come i fattori socioeconomici influenzano la progressione del disturbo di una persona, nonché la durata trascorsa in ogni stato cognitivo nel tempo.

L’impatto della condizione socioeconomica

Dalla ricerca emerge un dato chiaro. Chi si trova in condizione socioeconomiche migliori tende ad avere una traiettoria diversa in termini di potenziale decadimento. Soprattutto i soggetti con istruzione post-secondaria, quindi che hanno frequentato l’università, così come chi ha un lavoro di livello manageriale o professionale e quelle nel terzo più ricco della popolazione appaiono meno a rischio. Nel senso che si sono osservate minori probabilità di passare da uno stato cognitivo sano a un deterioramento cognitivo lieve o da un deterioramento cognitivo lieve a demenza rispetto a quelle con istruzione primaria (non superiore alla scuola secondaria), che lavoravano in occupazioni manuali o ripetitive e nel terzo maggiormente fragile sul fronte socioeconomico.
Scorrendo lo studio si osserva come avere un livello di istruzione post-secondaria era associato a una probabilità inferiore del 43% di passare da uno stato cognitivo sano a un deterioramento cognitivo lieve. Non solo. Far parte del terzo più ricco della popolazione era associato a una probabilità inferiore del 26% di passare da un deterioramento cognitivo lieve a forme gravi.

Lo studio, come riportano gli autori, evidenzia quindi come disponibilità economiche, istruzione, livello e ruolo in ambito lavorativo favorisce una riduzione del rischio di transizione da un deterioramento cognitivo lieve a demenza, oltre che favorire un’eventuale retromarcia, quando ovviamente possibile, verso uno stato cognitivo sano. Insomma, magari senza parlare di Alzheimer, il benessere sociale appare come una chiave per sperare di invertire una traiettoria che si avvia verso il negativo.

Sia chiaro: si tratta solo di dati. E non ci sono spiegazioni chiare per chiarire questo trend. Ma si può ipotizzare che l’istruzione e le professioni che più impegnano la mente possano offrire uno stimolo per costruire una riserva cerebrale più forte. E quindi aiutare a proteggere gli individui dal deterioramento cognitivo.

Importante cogliere i primi segnali di decadimento

In attesa che studi di questo tipo approfondiscano i potenziali rapporti tra stato socioeconomico e benessere del sistema nervoso, occorre ricordare quanto e come sia importante non sottovalutare eventuali segnali d’allarme. In questo senso, infatti, la ricerca farmacologica sta offrendo prospettive di grande interesse, soprattutto considerando il cosiddetto MCI (Mild Cognitive Impairment), ovvero le prime fasi di patologia.

Cosa fare? Tenete presente che a volte, soprattutto nelle persone che sono avanti negli anni, piccoli deficit non vengono riconosciuti: dimenticare dove si è posteggiata l’auto, attribuire dei nomi diversi alle persone che si conoscono, o anche solo cambiare abitudini.
Arrivare presto, anche con un sospetto, fa la differenza. Perché si avvicinano soluzioni che potrebbero influire sul l’andamento della patologia.
Si spera di giungere ad approcci che agiscono non sul sintomo cognitivo o comportamentale, ma anche a rallentare la progressione di patologia o ritardarne l’esordio se utilizzati in una fase precoce di malattia. Quindi, se qualcosa ci allarma, parliamone con il medico.