Non è ancora entrato alla Casa Bianca e già ha disegnato una nuova mappa del mondo. Letteralmente, perché Donald Trump ha pubblicato sul suo social Truth una cartina geografica del Nord America che vede il Canada inglobato negli Stati Uniti. Il tutto dopo aver lanciato mire di conquista anche su Panama e Groenlandia.
Nei progetti fantasiosi del presidente eletto anche il Golfo del Messico dovrebbe cambiare nome in “Golfo d’America”, a ulteriore testimonianza dell’importanza geopolitica per gli Usa di “essere un’isola”. Cioè di non avere nemici temibili intorno e di essere inespugnabile via mare. Al di là della propaganda, però, cosa rimane?
Perché Trump vuole annettere il Canada agli Usa
Se un controllo diretto della Groenlandia garantirebbe una profondità strategica inedita agi Usa, il Canada ne cementerebbe le ambizioni artiche. Attualmente gli Stati Uniti rappresentano quella che in geopolitica si definisce “isola”: non un atollo dove rilassarsi in spiaggia, ma un’entità non circondata da nemici temibili e dominatrice dei mari che la circondano, dai quali non possono dunque provenire invasioni. Il Canada è forse il più placido satellite degli Stati Uniti, già inserito da decenni nella sfera egemonica americana senza bisogno che venga inglobato nel territorio federale. Ma allora perché Donald Trump lo ha detto?
L’annessione del Canada rappresenta un antico sogno dei patrioti statunitensi, che generazioni di nazionalisti si sono tramandate fino alla dottrina “America First”. Quando afferma di voler prendersi il grande vicino del Nord, Trump tocca le corde del suo elettorato e degli apparati – autentici artefici dei destini della nazione, altro che il presidente. La necessità di aumentare la profondità difensiva è diventata inderogabile per un Paese al cambio di boa più decisivo del nuovo millennio. La stanchezza imperiale, i troppi fronti aperti, la competizione crescente per l’Artico al momento dominato dalla coppia Russia-Cina e le frizioni con le province europee hanno indotto il tycoon a urlare il primato degli interessi americani su qualunque alleanza o sovranità di altri Stati. Se poi ci aggiungiamo la concomitante crisi del governo canadese guidato da Justin Trudeau, l’opportunismo di Trump appare ancora più puntuale.
Ci riuscirà? Molto molto difficile. L’iter per l’ingresso di un nuovo Stato nell’Unione federale americana è complesso, figurarsi se si tratta di un’altra nazione. Ed è fuori dalla portata di un singolo uomo, anche se è il presidente. Vale lo stesso discorso per la Groenlandia, che gli Usa hanno tentato di acquistare dalla Danimarca in più di un’occasione. Senza successo. La strada più plausibile è quella di un accordo di libera associazione chiamato Compact of Free Association. Washington impianterebbe basi militari e soldati sull’isola, in cambio di protezione e aiuti economici. Un modello vincente che gli Usa hanno utilizzato in tutte le loro province, incluse quelle europee. L’annessione del Canada consentirebbe agli Stati Uniti ridurre il deficit commerciale e di evitare i cospicui sussidi destinati al Paese dall’esterno.
Perché Trump vuole conquistare Panama
Oltre alla competizione artica, per gli Usa è esistenziale anche la connessa sfida con la Cina. Il gigante asiatico è il grande rivale per l’egemonia globale, anche se Pechino fatica enormemente anche soltanto a mantenere la coesione interna e non è riuscita finora neanche a dominare il proprio continente. Resta però il fatto che la penetrazione cinese si dipana subdola attraverso l’economia, tramite ingenti investimenti economici nei Paesi in via di sviluppo dall’Africa all’America Latina. Incluso Panama, proprio nel cortile di casa degli Usa. Nel 1999 Washington ha ceduto la gestione del Canale di Panama, uno dei più importanti passaggi commerciali del pianeta, allo Stato di Panama, dopo decenni di braccio di ferro. Mossa tattica in cui la Cina si è inserita con sapienza.
Per gli Stati Uniti il collegamento fra gli oceani Atlantico e Pacifico, garantito dal canale artificiale lungo 82 chilometri, è semplicemente indispensabile per mantenere l’egemonia sui mari e sull’Occidente. Poter trasferire la flotta militare da un quadrante all’altro del pianeta garantisce il dominio statunitense sui colli di bottiglia, punti nevralgici della globalizzazione. Attualmente messi in crisi dai fronti di conflitto, come ampiamente dimostrato dalla crisi del Mar Rosso. Circostanza che accresce l’importanza di Panama come dell’Artico come nuova rotta commerciale. Il contrasto della penetrazione cinese resta dunque l’obiettivo concreto principale dietro le uscite di Trump.
Gli Usa di Trump possono davvero conquistare altri Stati?
Tutto è possibile, affermava un vecchio saggio. Ma ci sono vari “ma”. Il primo, enorme, è che gli Usa hanno costruito il loro predominio sui mari e sul mondo con le armi, certo, ma anche condannando le vecchie modalità coloniali di conquista territoriale. Il neocolonialismo statunitense si snoda attraverso una narrazione che esalta la democrazia e la difesa dei diritti universali di cittadini e popoli. Che universali non sono affatto, come dimostrano le opinioni pubbliche di tre quarti del pianeta, ma tralasciamo. Washington non invade e non annette altre nazioni e comunità, come invece ha fatto la Russia con Crimea e altri territori ucraini, per intenderci. O, meglio, se lo fa utilizza una propaganda di “liberazione”, come potrebbe suonare decisamente familiare anche a noi italiani. Ipocrisia, opportunismo o missione di civiltà, lo lasciamo giudicare a chi si occupa degli aspetti morali.
Una volta raggiunta la maturità imperiale, gli Usa hanno cercato di non fare più la guerra diretta agli imperi rivali, preferendo il conflitto per procura. Lo scontro in Ucraina ne è un fulgido esempio. La stanchezza imperiale e la sovraesposizione su molteplici fronti, nonché la temibile cooperazione Russia-Cina, hanno poi messo Washington di fronte a una verità pericolosa: la maggior parte del mondo non vuole americanizzarsi. E, mentre i nemici si rafforzano, le province americane sembrano finire nel caos. Tutto questo, insieme ad altri fattori, ha portato Trump di nuova alla presidenza della super potenza mondiale. Gli Usa profondi vorrebbero chiudere l’impero e vivere di benessere economico come i loro satelliti. Ma ciò non è geopoliticamente possibile. Per cui Trump deve utilizzare barcamenarsi tra l’accontentare il Paese e mantenere l’egemonia globale. Senza mai uscire dai binari della narrazione della grande potenza democratica. Pena il crollo dell’intero castello.
Aggiungiamoci anche il fatto, dirimente, che i territori che il tycoon ha annunciato di voler unire agli Stati Uniti sono “amici”, già ampiamente inseriti nell’orbita americana e che anzi hanno maggiore senso ed efficacia se “esterni” allo Stato federale. La procedura per l’inclusione di un territorio o di uno Stato all’interno degli Usa è a dir poco complessa e a prova di presidente. Presidente che, al netto di tutto, rappresenta soltanto un ingranaggio molto povero di poteri di un’amministrazione manovrata dagli apparati, a partire dal Congresso.