Israele perde, ma Hamas non vince: perché accettare l’accordo di Biden è la scelta giusta

Le condizioni per la tregua proposte dagli Usa, che hanno accolto le richieste israeliane, sono state accettate da Hamas. Lo Stato ebraico si era detto altrettanto pronto al "sì". Cosa ci aspetta durante e dopo la pausa del conflitto

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Pubblicato: 3 Giugno 2024 11:10

Il valzer diplomatico per la tregua a Gaza muove i passi sul sangue dei civili, massacrati a migliaia in un fazzoletto di terra. “All Eyes On Rafah” hanno recitato ossessivamente i nostri social che, tra milioni di repost e contemporanea censura di foto e video dalla Striscia, non si sono però smossi da un sostanziale slacktivism, cioè “attivismo pigro”.

La prima forma campagna virale di indignazione internazionale creata dall’Intelligenza Artificiale ha tuttavia evidenziato un aspetto importante: i massacri sui civili compiuti da Israele, in particolare quello del 26 maggio contro una tendopoli della martoriata Rafah, non sono più tollerati da milioni di persone. A parole, è vero, ma qualcosa conta nei Paesi che contano, Usa in primis. Al punto da spingere Joe Biden a proporre con forza un accordo per la tregua a Hamas e Israele, che a questo punto dovrebbero davvero accettare. I fondamentalisti hanno accettato, ora tocca a Tel Aviv. Che farà altrettanto, ma solo in attesa delle condizioni migliori per distruggere Hamas, come ribadito quotidianamente.

Perché Israele dovrebbe accettare l’accordo di Biden

Dopo essersi detto pronto ad accettare l’accordo proposto dagli Usa in cambio di tutti gli ostaggi di Hamas, lo Stato ebraico ha visto aumentare le tensioni interne al governo. Dell’inconsistenza della minaccia dei ministri più estremisti di uscire dal governo Netanyahu avevamo già parlato. Adesso il premier sta facendo pressioni soprattutto sul ministro della Difesa, Yoav Gallant, e sul titolare del Gabinetto di Guerra, Benny Gantz, per ottenere il loro timbro su una proposta che reputa un po’ come un’ultima spiaggia. Dietro ci sono ovviamente le pressioni sempre più insofferenti degli Stati Uniti, grandi protettori e sponsor di Israele ma al contempo stanchi di sostenere l’insostenibile. La difesa dello Stato ebraico e la tattica di voler distruggere Hamas nella Striscia non sono più credibili al netto dei massacri di palestinesi. Le proteste universitarie pro-Palestina, le tensioni per le elezioni presidenziali, la sovraesposizione su molteplici fronti e il dibattito su armi e aiuti rappresentano fattori di rischio troppo grandi per Washington.

Dal punto di vista di Israele lo scivolo verso il baratro si fa sempre più inclinato. I rischi di un’offensiva su Rafah erano chiari fin dall’inizio, ma se Tel Aviv scegliesse davvero di avanzare definitivamente sulla città al confine con l’Egitto, gli esiti sarebbero apocalittici. In primis per i civili costretti a fuggire e presi di mira dai raid, ma anche per il sostegno internazionale: la popolarità dello Stato ebraico è infatti ai minimi storici. Accettare l’accordo per una tregua è diventato primario per Israele anche perché, in questo modo, potrebbe davvero scongiurare la morte degli ostaggi nelle mani di Hamas, unico grande strumento negoziale per i fondamentalisti, che da mesi resistono alla grande potenza militare ebraica nonostante siano inferiori sotto ogni aspetto tecnico. Il grande vantaggio di Israele, finché dura, è quello di aver subìto una sconfitta tattica, ma non strategica: gli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti con le monarchie arabe sono ancora in piedi. E, con essi, la deterrenza contro l’Iran, che nel frattempo sta stringendo relazioni sempre più salde con le altre grandi due potenze anti-occidentali: Russia e Cina.

Il governo Netanyahu ha le spalle al muro più di quanto riesca ad ammettere anche per quanto riguarda i risultati tattici: non ha liberato nessuno degli ostaggi – con familiari e popolazione che chiedono a grandissima voce un’intesa per riportarli a casa – e non ha decapitato la leadership di Hamas, nonostante i ricorrenti annunci di uccisioni di figure di vertice dei fondamentalisti. Fondamentalisti che continuano a tenere in scacco un esercito, le Idf, di gran lunga più potente di loro e che anzi continuano a colpire. Proprio un attacco con missili su Tel Aviv ha scatenato la reazione sulla tendopoli di Rafah, punto di non ritorno di una rappresaglia oramai ingiustificabile agli occhi di quasi tutto il mondo. “Trappola” predisposta da Hamas, nella quale Israele è caduta per l’ennesima volta. Come dimostrano il riconoscimento della Palestina come Stato da parte di sempre più Paesi dell’Europa occidentale e la volontà dell’Ue di sanzionare Israele. L’unità interna al Paese appare infine inevitabilmente compromessa, col fuoco della rivolta popolare che potrebbe bruciare la piramide Netanyahu nel caso non accettasse un accordo anche stavolta.

Perché Hamas dovrebbe accettare l’accordo di Biden

Dal punto di vista di Hamas, la questione dell’accordo non è meno stringente. Accettando le condizioni di Israele, potrebbe rivalutare la sua immagine a livello sia interno (ha infatti perso quasi tutti i consensi tra i civili palestinesi) sia internazionale perché di fatto “salverà” Rafah. Senza contare che, ovviamente, una pausa delle ostilità consentirebbe alla modesta milizia fondamentalista di tirare il fiato e rielaborare la propria agenda, tarandola anche sulla nuova tattica che lo sponsor Iran deciderà di attuare. Come in uno specchio riflesso, l’intransigenza nei confronti di Israele potrebbe dunque costare carissimo a Hamas. Rafah non deve essere distrutta, per nessuno dei due schieramenti.

Nell’ottica dei mediatori Usa-Qatar-Egitto, l’accordo tra le parti in conflitto dovrebbe rappresentare il primo passo verso la fine della guerra. Il problema è il come. Da una parte il governo Netanyahu si è detto motivato a continuare le ostilità finché i gestori di Gaza non saranno distrutti. Dall’altra la questione principale che potrebbe dar da pensare a Hamas è proprio la gestione della Striscia dopo il cessate il fuoco. Una volta che i palestinesi superstiti torneranno a casa e gli ostaggi israeliani saranno liberati, Hamas si ritroverà al centro di un territorio che non potrà di fatto più governare. I progetti e i fondi per la ricostruzione non arriveranno da papà Iran, ma dagli emirati del Golfo, per trasformare Gaza nella “Dubai del Mediterraneo”. Le mire politico-amministrative dei fondamentalisti si orienterebbero dunque verso la Cisgiordania, ribollente di tensione tra coloni israeliani e residenti palestinesi e che a quel punto diventerebbe la nuova Gaza. Accettando l’accordo, per Hamas è fondamentale che qualcuno garantisca che Israele rispetti i termini pattuiti. Gli Usa sono stati sempre giudicati troppo “coinvolti”, ma al momento l’insofferenza verso la condotta di Netanyahu ha cambiato le carte in tavola. In ogni caso le milizie filo-iraniane dovranno accettare il disarmo, la cristallizzazione dei confini del 1967 e l’impianto nella Striscia di un governo tecnico predisposto da Stati Uniti, Autorità Nazionale Palestinese e Israele.

L’impianto dell’accordo, come si vede, si basa sulle promesse da ambo le parti. Se funzionerà ce lo dirà soltanto il tempo, mentre la storia ci suggerisce che il pretesto per riaccendere il conflitto è sempre dietro l’ultima pagina di ogni trattato.