È morto Raisi, ma non l’Iran: la politica estera non cambia, la lotta per il potere sì

La morte del presidente e del ministro degli Esteri non modifica la strategia dell'Iran. La contesa con Israele può essere però messa in crisi dalla lotta interna per il potere

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Dice molto il fatto che, subito dopo l’incidente, l’Iran si sia affrettato nello smentire anche solo l’ipotesi della morte del presidente Ebrahim Raisi. Vietato dare segnali di debolezza in un momento di competizione imperiale con Israele e gli Stati Uniti. La notizia di contatti telefonici con i passeggeri dell’elicottero, schiantatosi al confine con l’Azerbaigian, era però troppo audace ed è stata prontamente cancellata dai media iraniani.

Al di là delle accuse e delle ipotesi di sabotaggio da parte degli israeliani, pronunciate da alcuni esponenti della Repubblica Islamica, la pista del guasto tecnico è ormai la più probabile. Uccidere un Capo di Stato in un momento di aperto conflitto comporterebbe rischi apocalittici. Ciò che è certo è che la scomparsa di Raisi non modificherà la traiettoria geopolitica e gli obiettivi strategici dell’Iran, e forse neanche le tattiche di politica estera. Il discorso si complica invece per quanto riguarda la lotta di potere che si scatenerà in terra persiana.

L’Iran è sempre l’Iran: perché la morte di Raisi non lo cambierà

La geopolitica ci suggerisce che i leader non sono poi così importanti. Tradotto: i principi strategici che una collettività deve perseguire per sopravvivere in senso sovrano sono fissi, a prescindere da chi guida o comanda il Paese. In questo senso Raisi lascia un vuoto senza dubbio politico, ma non frena la corsa dell’Iran in Medio Oriente. Uno degli obiettivi esistenziali della Repubblica Islamica è quello di impedire l’avvicinamento e la normalizzazione delle relazioni tra Israele e monarchie arabe, in primis Arabia Saudita. Per questo motivo Teheran si è mossa finanziando e supportando il cosiddetto “Asse della Resistenza” (o “Mezzaluna sciita” nella dizione occidentale), armando e scatenando contro lo Stato ebraico le milizie che lo circondano: Hamas, Hezbollah e Houthi.

Il disgelo diplomatico fra Stato ebraico e Paesi arabi è stato certificato con gli Accordi di Abramo, tuttora in piedi nonostante gli sconvolgimenti del conflitto. Lo scopo strategico dell’Iran è distruggere questi Accordi, voluti dagli Usa nel 2020 e benedetti bipartisan. Tanto da Donald Trump quanto da Joe Biden. Per raggiungere questo obiettivo, Teheran ha al contempo rilanciato scambi e rapporti con Russia e Cina, in ottica anti-americana. Appaiono dunque più comprensibili i tuoni iraniani sulla presunta responsabilità israeliana dietro l’incidente di Raisi, la cui delegazione stava tornando da una visita in un Azerbaigian sempre più “ribelle” nei confronti della Repubblica Islamica e sempre più vicino allo Stato ebraico, dal quale importa mezzi tecnologici e militari. Se si aggiunge che l’elicottero governativo si è schiantato nella nebbia (anche) perché le sanzioni occidentali contro Teheran impediscono manutenzione e ricambio del parco aereo iraniano, il quadro del complotto è servito. Eppure la pista dell’incidente è stata confermata, anche grazie al supporto della Turchia che ha fornito droni per la ricerca del relitto e dei corpi.

Il presidente della Repubblica Islamica è un attuatore, non un decisore. Anzi, lavora per la Guida Suprema: il modello politico iraniano prevede l’autorità superiore dell’ayatollah, Ali Khamenei, che ora prenderà in mano la situazione e rilancerà le velleità imperiali dell’Iran. Nessuna cesura, nessun tentennamento. Almeno in apparenza, perché nell’incidente è morto anche il ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, grande tessitore delle trame internazionali dell’Iran e negoziatore diretto con i grandi leader del mondo. Sebbene messa in ombra da quella di Raisi, anche la scomparsa di Amir-Abdollahian è significativa perché è stato un funzionario di successo, supervisionando una complicata e riuscita riconciliazione con l’Arabia Saudita e affrontando una serie di crisi difficili, come con il confinante Pakistan.

Come funziona il sistema politico in Iran

L’ayatollah detiene il potere supremo in Iran, agendo come comandante in capo delle Forze armate e decidendo la direzione della politica estera, definita in gran parte dal confronto con gli Stati Uniti e Israele. La mancanza di un candidato designato alla successione di Khamenei apre quindi la porta a fazioni e figure delle élite religiose, sullo sfondo di crescenti difficoltà economiche e del dissenso del popolo iraniano.

Secondo la Costituzione iraniana, la Guida Suprema è nominata dall’Assemblea degli Esperti, un organo clericale composto da 88 membri che supervisiona e in teoria può anche licenziare l’ayatollah. Mentre l’Assemblea degli Esperti viene mobilitata durante le elezioni, un altro organo di controllo intransigente, composto da religiosi e giuristi allineati a Khamenei, ha il potere di porre il veto sulle leggi e decidere chi può candidarsi.

La lotta di potere per il dopo Raisi: chi prenderà il suo posto?

La morte di Ebrahim Raisi moltiplica in ogni caso il livello di incertezza e instabilità nella regione, minacciando di far esplodere la contesa interna per la successione al potere. L’Iran deve scegliere “se insistere su un’altra elezione con candidati calati dall’alto e scarsa affluenza, con il rischio che questo generi instabilità, o accettare un compromesso e aprire almeno in parte la competizione, afferma Vali Nasr, docente alla Johns Hopkins ed ex consigliere del Dipartimento di Stato americano, un’autorità mondiale sull’Islam sciita. Parlando a La Repubblica, Vars osserva come Raisi fosse “la faccia e il candidato degli ultraconservatori, della fazione chiamata Paydari, che oggi controlla il Parlamento”. Parliamo di un’estrema destra che è molto potente anche negli apparati di sicurezza.

Al momento non sembra esserci un candidato forte per la successione. “Nessuno che sia riconoscibile dal popolo iraniano. Lo speaker della Camera, Mohammad Bagher Ghalibaf, di cui si fa molto il nome in queste ore, non viene dalla destra estrema ma è un conservatore più tradizionale, così come il capo della magistratura Gholamhossein Mohseni Ejei. Si parla del sindaco di Teheran, Alireza Zakani, che è un radicale ma non è conosciuto”, aggiunge Nasr. Nonostante il suo nome sia stato spesso citato, non è invece sicura la possibile candidatura di Mojtaba Khamenei, 55enne religioso di medio rango che insegna Teologia nella città santa sciita di Qom. Khamenei, dal canto suo, ha poi espresso opposizione alla candidatura di suo figlio perché non vuole vedere alcun ritorno verso un sistema di governo ereditario, in un Paese in cui la monarchia sostenuta dagli Stati Uniti è stata rovesciata nel 1979. Una questione di principio, insomma. Un altro nome che potrebbe essere gradito a Khamenei è quello dell’ultraconservatore Saeed Jalili, oggi a capo del Consiglio Supremo di Sicurezza nazionale”. Quando ha provato a candidarsi in passato, però, ha preso pochissimi voti. L’alternativa è un compromesso, “consentendo a un conservatore tradizionale e moderato come Ali Larijani di correre”.

Anche Israele è alle prese con fratture e tensioni interne, ma l’Iran potrebbe essere messa peggio. L’improvvisa scomparsa del vertice politico ha creato di fatto un vuoto di potere che scatenerà manovre e macchinazioni da parte dei dirigenti del Paese. Secondo l’articolo 131 della Costituzione iraniana, in caso di morte del presidente il primo deputato assume temporaneamente la presidenza. Tocca a Mohammad Mokhber, fedelissimo di Khamenei, il quale ha il compito di traghettare la Repubblica Islamica verso le elezioni entro 50 giorni (l’8 luglio). Un’occasione ghiotta per quei potenti funzionari iraniani che vogliono scalare la piramide del potere, mettendo alla prova la solidità di Khamenei. Sfida non facile, visto che l’ayatollah ha di fatto perso quello che era considerato il suo successore designato. Raisi aveva infatti un’enorme esperienza istituzionale: era un leader religioso, ex guida della Giustizia ed ex capo di un’enorme fondazione. La sua uscita di scena comporta un autentico shock per il sistema politico del Paese. Lo stesso Khamenei aveva ricoperto la carica di presidente prima di diventare Guida Suprema nel 1989, in seguito alla morte del fondatore Khomeini.

Iran contro i segnali di debolezza: cosa succederà ora

Lo sconvolgimento provocato dalla morte di Raisi non cambierà i principi della politica estera, ma quasi sicuramente ne influenzerà la portata. Distratto dalla crisi interna, l’Iran potrebbe infatti impegnarsi con meno forza nella lotta su più fronti contro Israele. Anche alla luce di una serie di segnali di percepita debolezza che vanno avanti da mesi, nel segno della violenza fondamentalista. A cominciare dal 3 gennaio, quando un gruppo di jihadisti ha ucciso almeno 84 persone in due esplosioni vicino alla tomba del generale Qassem Soleimani, capo della Forza d’élite iraniana Quds. Il mese precedente, il gruppo terroristico sunnita Jaish al-Adl aveva invece ucciso 11 agenti di polizia iraniani. L’Iran, nel disperato tentativo di mostrarsi forte, ha lanciato missili contro il Pakistan, dicendo che stava prendendo di mira Jaish al-Adl. Ma il Paese confinante, dotato di armi nucleari, ha risposto per le rime con missili e aerei da combattimento, compiendo il primo bombardamento su suolo iraniano dalla guerra con l’Iraq negli Anni Ottanta. Mesi prima dell’attacco telefonato di Israele, dunque.

Già allora il “grande bluff” della potenza iraniana era stato dunque scoperto, con Teheran che ha accettato di stemperare la contesa col Pakistan. La credibilità imperiale di Teheran è stata ulteriormente compromessa dal conflitto contro Israele e potrebbe dunque subire una nuova spallata dalla lotta interna per il potere. Un ruolo importante sarà giocato dai gruppi di fatto più potenti del Paese: le Guardie Rivoluzionarie e gli influenti esponenti religiosi di Qom.