Bangladesh in rivolta, dopo le proteste la premier scappa in India: cosa sta succedendo

Il Paese asiatico si unisce alla lunga lista di crisi internazionali e minaccia di destabilizzare ulteriormente l'equilibrio globale. La premier Hasina si dimette e fugge oltreconfine, mentre migliaia di manifestanti assaltavano il suo palazzo

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Pubblicato: 6 Agosto 2024 09:49

Ci mancava anche il Bangladesh. Più o meno è stato questo il pensiero di chi ha visto il Paese asiatico aggiungersi alla preoccupante lista delle crisi internazionali in corso. Settimane di violente proteste di piazza contro l’esecutivo hanno portato alle dimissioni e alla fuga della premier Sheikh Hasina. Il potere è stato reclamato dalla giunta militare comandata dall’esercito, la quale ha annunciato la formazione di un governo ad interim.

Dopo Gaza e dopo l’Ucraina, con l’Indo-Pacifico di Taiwan pronto a deflagrare da un momento all’altro, perché adesso scoppia il caos anche nello Stato a maggioranza musulmana incastonato nell’India?

Perché sono scoppiate le proteste in Bangladesh

Sono ormai settimane che in Bangladesh proseguono i cortei popolari, assieme a devastazioni e scontri che hanno provocato centinaia di morti (ben oltre 300). La situazione è giunta a un punto di non ritorno a causa della volontà del governo di utilizzare il pugno duro contro i manifestanti, finendo però col venirne travolto. Centinaia di migliaia di persone non si sono infatti fermate di fronte alle mosse dell’esecutivo: coprifuoco notturno, tagli alla copertura internet, gas lacrimogeni e proiettili di gomma sparati dalla polizia. L’onda popolare ha spazzato via lo status quo, infrangendosi con fragore contro il Bangabhaban, il palazzo presidenziale, occupato nella sua interezza. Onda agitata in gran parte da studenti che nelle strade di Dacca chiedevano la testa di Hasina, eletta per un quarto mandato consecutivo a gennaio, in un voto boicottato dalle opposizioni. Il principale artefice è stato il Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp), che già all’epoca aveva chiesto (invano) le dimissioni di Hasina e la nascita di un governo transitorio per gestire il processo elettorale. La rabbia sociale nei confronti della guida dell’esecutivo è dilagata anche in altri ambiti e luoghi, con migliaia di cittadini che hanno devastato abitazioni e attività commerciali di esponenti del partito della premier (la Lega Awami). Anche la casa di famiglia di Hasina, trasformata in museo, è stata presa d’assalto.

E pensare che inizialmente la protesta aveva assunto toni pacifici, portata avanti da studenti contro il sistema di quote per l’assegnazione di posti di lavoro statali. Posti in gran parte riservati ai familiari dei veterani della Guerra di indipendenza dal Pakistan, tradizionalmente vicini al partito della premier. L’ennesimo tassello di una crisi economica caratterizzata da diminuzione delle esportazioni, esaurimento delle riserve di valuta estera e aumento della disoccupazione. Un deciso peggioramento si è registrato dopo l’invasione russa su larga scala e lo scoppio della guerra d’Ucraina, coi prezzi di energia e alimenti schizzati alle stelle, aggravati dalla corruzione dilagante e da una richiesta di prestito di 4,7 miliardi di dollari nel giugno 2022 al Fondo Monetario Internazionale. Inevitabile l’aumento esponenziale del debito pubblico e dell’inflazione, con conseguente peggioramento delle condizioni di vita soprattutto delle fasce sociali più povere, incluse le classi di lavoratori (sottopagati) nello strategico settore tessile.

Una prima ondata di proteste aveva convinto l’esecutivo a tagliare buona parte di questi privilegi nel lavoro pubblico. La situazione è però poi degenerata nella repressione – tra arresti e morti – e nel conseguente inasprimento della rivolta, con esiti tragici. In sole 24 ore e nella sola Dacca sono stati uccisi almeno 110 manifestanti. La marcia studentesca si è dichiarata contro l’autocrazia del partito Awami, incarnata dal culto della famiglia dell’ormai ex prima ministra. Già da tempo, almeno dal 2023, si era incrinato il già labile rapporto di fiducia popolare nei confronti delle istituzioni, percepite come ostaggio di un monopolio del potere. Una sensazione diffusa che coinvolge l’intero spettro politico bangladese, incluse le opposizioni definite “covo di traditori” dalla premier dimissionaria.

La vita e la fuga della premier Hasina

Dopo le dimissioni della premier Hasina, da 15 anni al potere, i manifestanti hanno assaltato il Ganabhabam, la residenza ufficiale del capo del governo nella capitale Dacca. Una mossa di grande impatto simbolico che si è accompagnata a un’altra di forza ancora maggiore: i rivoltosi hanno abbattuto la statua di Sheikh Mujibur Rahman, padre di Hasina e grande nome legato all’indipendenza del Bangladesh, brutalmente ucciso nel 1975 durante un colpo di Stato da parte dell’esercito. Non solo una mossa per conquistare il potere, ma per annientare quella che veniva percepita come una “dinastia”. All’eccidio però sopravvissero Hasina e una sua sorella, vivendo in esilio fino al 1981 per poi fare ritorno in patria e riprendere in mano lo scettro. Scettro conteso da un’altra aspirante “famiglia regnante”, cioè quella del Partito nazionalista del Bangladesh fondato nel 1978 dal generale Ziaur Rahman.

A gennaio, dopo la conquista del quarto mandato consecutivo, Stati Uniti e Gran Bretagna avevano sentenziato che le elezioni non erano state credibili, libere ed eque. Anche le tornate precedenti, nel 2018 e nel 2014, erano state segnate da accuse di brogli elettorali e boicottaggio da parte dei partiti di opposizione. I critici da anni accusano il governo bangladese di usare strumenti ignobili per sopprimere il dissenso.

Forte dei risultati economici sventolati con vanto dal suo governo, col reddito pro capite triplicato nell’ultimo decennio, Hasina si era illusa di poter piegare sia col bastone sia con la carota l’onda rivoluzionaria. La sua avversione al multipartitismo le è però stata fatale. Prima che i rivoltosi assaltassero la sua residenza, l’ex premier era fuggita dalla capitale assieme alla sorella, ripiegando ad Agartala, nel nord-est dell’India. Alcune fonti di Nuova Delhi affermando che Hasina avrebbe intenzione di rifugiarsi definitivamente a Londra. Una fuga rocambolesca, secondo fonti vicine alla prima ministra avvenuta senza avere “il tempo di prepararsi”, prima “nascosta” in un corteo di auto e poi in elicottero.

Verso un governo militare, ma gli studenti non ci stanno

Al di là della carica studentesca, il successo della rivolta in Bangladesh è ascrivibile in gran parte all’azione dell’esercito. Sarebbero stati infatti proprio i militari a convincere Hasina a lasciare governo e capitale, dando poi notizia della svolta politica in un clima di diffusa incertezza sull’immediato futuro del Paese. Il generale dell’esercito Waker-uz-Zaman ha annunciato, in un discorso alla nazione diffuso dalla tv di Stato, che formerà un governo ad interim. Il presidente del Paese, Mohammed Shahabuddin, ha ordinato il rilascio dell’ex prima ministra incarcerata e leader chiave dell’opposizione Khaleda Zia, confermando la presa del potere da parte dei militari. È stata poi decretata l’immediata liberazione di tutti i manifestanti arrestati nelle proteste anti-governative. Da parte sua, anche l’esercito sta cercando di apparire come la forza in grado di mantenere equilibrio e distensione, dichiarando la fine del coprifuoco e la riapertura di scuole, università e fabbriche.

Sebbene l’esercito goda di una notevole influenza politica in Bangladesh, che ha vissuto più di venti colpi di Stato o tentativi di golpe, gli appelli dei soldati potrebbero non essere sufficienti a porre fine ai disordini. Waker-uz-Zaman ha promesso che i militari avvieranno un’indagine sulla repressione che ha portato a uno dei peggiori spargimenti di sangue nel Paese dalla guerra di indipendenza del 1971, ordinando alle forze di sicurezza di non sparare sulla folla. “Mantenete la fiducia nei militari, indagheremo su tutte le uccisioni e puniremo i responsabili”, ha assicurato.

La ricetta dell’esercito è però risultata indigesta agli studenti, che hanno di fatto montato la protesta che ha trasformato di fatto il Paese. Il gruppo Students Against Discrimination ha affermato che un governo militare “non è la soluzione” e che spetta a chi ha condotto la rivolta decidere chi guiderà il Bangladesh. Alla guida del Paese, i collettivi di giovani hanno proposto il premio Nobel Muhammad Yunus. Proposta immediatamente e opportunisticamente rilanciata anche dal leader del principale movimento di protesta in Bangladesh, Nahid Islam, che ha chiesto a gran voce la nomina di Yunus alla guida del governo ad interim in qualità di “consigliere senior”. Yunus, 84 anni, è noto per aver sottratto milioni di persone alla povertà grazie alla fondazione di una banca di microfinanza. Attirandosi contro l’ostilità di Hasina, che lo ha accusato di “succhiare il sangue” dei meno abbienti. Attualmente Yunus si trova in Europa e uno dei suoi più stretti collaboratori ha spiegato che il premio Nobel non ha ricevuto alcuna offerta ufficiale dall’esercito per guidare il governo bangladese.

Perché ci interessa la crisi in Bangladesh: quali conseguenze

La gravissima crisi bangladese ha accresciuto i già vibranti timori dell’intera comunità internazionale. Innanzitutto perché è scoppiata nel quadrante geopolitico più strategico del pianeta: quell’Indo-Pacifico che vede in Taiwan il primo bottone di contenimento statunitense della Cina e una serie di alleanze securitarie che includono anche la vicina e ambigua India. Ed è proprio quest’ultima la nazione più preoccupata per la rivolta in Bangladesh, temendo un’invasione di rifugiati dal Paese confinante. La Border Security Force, il corpo speciale paramilitare indiano che controlla le frontiere, ha emanato un’allerta di livello massimo lungo il confine. India e Bangladesh si toccano lungo una linea di 4.153 chilometri, di cui circa 3mila sono sbarrati da un muro, il quinto più lungo al mondo.

Le rapide della rivolta in Bangladesh rappresentano un enorme fattore di rischio nell’ambito di una serie di eventi elettorali che riguardano il Sud-Est Asiatico e testimoniano il crescente (e preoccupante) peso geopolitico di un Paese capace di ritagliarsi un proprio spazio di manovra seppur schiacciato da colossi confinanti come Cina e India. Una delle principali carte nelle mani di Dacca è la sua collocazione geografica nel Golfo del Bengala, che la rende un “portone” da spalancare all’occorrenza (e al miglior offerente) sull’Asia sudorientale e interna. I pretendenti non mancano, e i media internazionali hanno più volte sottolineato l’influenza delle potenze straniere sullo svolgimento della tornata elettorale di gennaio che ha portato al caos odierno. Minacciando l’intero equilibrio della regione e, di conseguenza, del sistema globale.

Le vibrazioni del caos bangladese si sono avvertite infatti anche a migliaia di chilometri di distanza. L’Unione europea e gli Stati Uniti sono partner commerciali fondamentali per il Paese asiatico, in particolare nel settore tessile. L’egemone globale e il suo impero europeo hanno lanciato accorati appelli “alla calma e alla moderazione”, sottolineando di seguire con apprensione i quotidiani sviluppi degli eventi. L’auspicio occidentale, per ovvia propaganda, è di “una transizione ordinata e pacifica verso un governo eletto democraticamente, nel pieno rispetto dei diritti umani e dei principi democratici”, come dichiarato dall’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell.