Crescita, digital e assunzioni: il “piano Robiglio” per lo sviluppo delle PMI

Le PMI italiane oggi sono circa 206mila, ma soltanto il 26% può considerarsi matura dal punto di vista tecnologico. Il Presidente di Ebano Spa spiega come si può crescere

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Miriam Carraretto

Giornalista politico-economica

Esperienza ventennale come caporedattrice e giornalista, sia carta che web. Specializzata in politica, economia, società, green e scenari internazionali.

Le PMI italiane oggi sono circa 206mila, pari al 4,86% del tessuto imprenditoriale italiano, e sono responsabili, da sole, del 41% dell’intero fatturato generato in Italia, del 33% dell’insieme degli occupati del settore privato e del 38% del valore aggiunto del Paese. Sono numeri che evidenziano subito l’importanza del ruolo giocato dalle PMI in Italia, anche per il loro impatto sociale, non solo economico.

Come si legge nel report “Innovazione digitale nelle PMI: uno, nessuno… ecosistema!” realizzato dall’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI a cura del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, troppo spesso sentiamo parlare di arretratezza delle imprese, di scarsa cultura digitale degli imprenditori, di visioni poco evolute. Affermazioni vere in parte sicuramente, come spiega Claudio Rorato, direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI, ma che non esauriscono il tema della “solitudine” dell’imprenditore italiano, la cui estrazione, prevalentemente tecnica, lo porta a concentrarsi più sul prodotto che sulla gestione e la programmazione, più sulla quotidianità che sulla pianificazione e la gestione del cambiamento.

Più le aziende sono piccole più il cambiamento è un tema da affrontare a livello di sistema. Ecco allora che le associazioni di categoria, le filiere, le supply chain, le banche, la politica, la Pubblica amministrazione, gli hub territoriali per lo sviluppo digitale devono tutti operare per creare le condizioni che permettano di fare impresa.

Dal punto di vista dell’innovazione, soltanto il 26% delle nostre piccole e medie imprese può considerarsi matura. Sono infatti ancora poche le PMI che mostrano un buon orientamento al digitale e sembrano avere le carte in regola necessarie per sviluppare il proprio business alla luce della digital transformation e rimanere competitive sul mercato.

In Italia – si legge sempre nell’analisi del Politecnico di Milano – il cambiamento può e deve essere trainato dal digitale, che però ad oggi è un punto di forza solo per le PMI cosiddette “large”, cioè con fatturato sopra i 50 milioni di euro o un numero dipendenti superiore a 250, ma non ancora per quelle “tipiche”: il 71% delle prime mostra, infatti, un profilo “convinto” o “avanzato”, rispetto al 50% delle PMI in senso stretto.

Perché le PMI devono investire nell’Intelligenza artificiale (adesso)

Il digitale è considerato come un costo solo dal 2% delle large rispetto al 16% delle PMI, mentre per il 61% è invece lo strumento cardine per costruire il futuro dell’azienda, rispetto al 35% delle PMI. In entrambe le categorie, però, risulta ancora carente l’attività di formazione svolta per i dipendenti e per il management.

La digitalizzazione delle PMI è una priorità per il Sistema Paese. Ma troppo spesso erroneamente – come riporta ancora il documento del Politecnico di Milano – si pensa che questo processo sia responsabilità solamente dell’impresa stessa. Come spiegano gli analisti, invece, per la crescita digitale del comparto PMI è necessario un approccio di ecosistema che coinvolga le imprese stesse, i provider tecnologici e finanziari, i professionisti, le università e gli hub territoriali per l’innovazione. Un ruolo particolare, poi, deve arrivare dalle filiere, il principale canale di interazione tra le imprese, come dimostrano le tre principali filiere del Made in Italy, Agroalimentare, Arredo e Design, e Moda.

Carlo Robiglio, fondatore e Presidente di Ebano Spa, holding tra le 20 società Gold per Deloitte che da oltre 30 anni è leader in Italia nei segmenti della formazione professionale per il mercato B2C e B2B, nell’editoria e nel digital marketing, da sempre è un convinto sostenitore della necessità dell’apertura delle imprese al cambiamento, e all’innovazione tecnologica, che oggi non può prescindere dal digitale.

Robiglio, a fine 2022 con Ebano avete chiuso un’importante operazione, che vi rende quasi un unicum nel panorama delle PMI italiane: cosa l’ha spinta a percorrere una strada così coraggiosa?

Il 16 dicembre dell’anno scorso abbiamo chiuso un’operazione importantissima: è stata la cessione della nostra partecipata CEF Publishing a MasterD-MEDAC, importante holding di diritto spagnolo partecipata dal fondo americano KKR. Ciò che mi ha spinto a compiere questo passo è stato innanzitutto la volontà di cominciare a guardare in una logica di espansione internazionale al mio business. Ma soprattutto, la convinzione, che ho sempre in qualche modo propugnato anche in tutto quello che ho fatto nella rappresentanza confindustriale, che la piccola impresa debba guardare la propria vita in un’ottica di evoluzione e di sviluppo. Quindi nella visione di una crescita, sostenibile, non poteva in questo caso venir meno l’ipotesi all’approccio a un fondo di investimento che garantisse risorse e visione per far sì che il business della formazione innovativa, sul quale stiamo investendo da anni in Ebano, possa avere una opportunità di crescita in Italia e anche a livello internazionale.

L’aspetto molto interessante è che non avete solo venduto il 100% di CEF, ma avete reinvestito, acquisendo una partecipazione nel Gruppo MasterD-MEDAC e dunque avviando un percorso vero di internazionalizzazione. Cosa si aspetta?

Il progetto e il percorso che mi erano state proposte prevedevano – ed è ciò che mi ha convinto sin dall’inizio – non solo la cessione da parte mia di CEF Publishing, ma un reinvestimento nell’operazione. Questo ha fatto la differenza. Non ero assolutamente dell’idea di cedere e di uscire dal mercato della formazione B2C, perché ritenevo che fosse assolutamente opportuno continuare a credere in questo mercato in forte espansione, in questo trend che vede la formazione come uno dei focus di sviluppo della società. Quindi ho ritenuto molto interessante la proposta proprio perché mi avrebbe visto partecipe in una logica di sviluppo, di internazionalizzazione, di crescita, che è ciò in cui credo fermamente come imprenditore.

Perché la crescita, soprattutto nei mercati esteri, spaventa così tanto gli imprenditori italiani e come avete superato i rischi connessi?

Non è di per sé la crescita che spaventa l’imprenditore. L’imprenditore italiano ha sicuramente visione, ma ha sempre un po’ paura che, crescendo, possa perdere la governance, possa perdere quello che in qualche modo è la capacità di gestire il business che ha creato, la capacità di vedere ciò che ha messo in campo nel corso degli anni, perdersi in una situazione dove il controllo non è più suo. Dobbiamo invece fare una grande operazione di cultura d’impresa, come amo chiamarla, cioè convincere il piccolo imprenditore italiano che la crescita non è un percorso di scelta: crescita è un percorso connaturato alla vita dell’impresa, perché crescere non è solo una questione dimensionale, ma soprattutto culturale. Dobbiamo portare l’imprenditore italiano in una logica di competenza e capacità di vedere la crescita. Certo, in qualche modo è un passo indietro a livello di governance, ma anche un ampio e grande passo in avanti a livello di capacità di creazione di valore, chiaramente non solo economico ma anche sociale, di responsabilità sociale verso il Paese, verso i territori e verso l’impresa stessa.

Con la sua azienda ha dimostrato che ci si può aprire all’estero senza perdere il legame, profondo, con il territorio in cui si opera. Questa è proprio un’operazione di cessione e reinvestimento. Da anni lei e i suoi collaboratori lavorate per una vera impresa sociale, tema che le sta particolarmente a cuore…

Sono da sempre fermamente convinto dell’importanza del territorio, delle comunità locali, dell’importanza che queste rivestono per l’impresa. Non concepisco il fare impresa senza un’ottica di restituzione al territorio, ma soprattutto senza una visione chiara e ben specifica dell’importanza del territorio, delle comunità nei quali l’impresa opera. Il profitto non è il fine, ma è uno strumento, un mezzo per creare valore per l’impresa, per la società e ovviamente per tutti gli stakeholders, non da ultimo gli azionisti e gli imprenditori. Io credo che quindi si debba sempre guardare questo sviluppo delle imprese in una logica sociale. Per questo al centro di questa logica abbiamo sempre messo insieme ai miei collaboratori il territorio, la comunità, l’ecosistema aziendale, sempre in quell’idea di restituzione e di valorizzazione del sociale che un’impresa deve avere.

Il 2023 sarà un altro anno di crescita per Ebano: in che direzione vi muoverete?

Abbiamo approcciato il 2023 e approcceremo anche gli anni a seguire nelle logiche di sviluppo dei trend di business che in questi anni ci hanno visto protagonisti: sicuramente l’attenzione alla formazione innovativa, nell’ambito anche del B2B, quindi l’attenzione allo sviluppo della formazione nelle imprese sarà al centro della nostra azione, così come tutti i trend legati alla comunicazione digitale e allo sviluppo di tutti quei percorsi di crescita formativa che vedono l’arricchimento e la valorizzazione delle persone.

Innovazione, investimento, sguardo internazionale ma radici nel territorio significa anche investimento in risorse umane, e quindi creazione di nuovi posti di lavoro. Di quali figure professionali avrete bisogno e in quali ambiti?

Oggi facciamo un gran parlare di industria 4.0, di innovazione, di investimenti in innovazione e sviluppo. Ma tutto questo non può prescindere dalla persona. La centralità della persona, della risorsa umana. Sono anche in questo caso fermamente convinto che, per quanto proceda e vada avanti lo sviluppo tecnologico, l’innovazione, tutto ciò non possa prescindere dalle competenze delle persone, quindi dall’investimento in competenze e risorse umane e investimento nella formazione continua delle stesse. Nel nostro gruppo saranno sempre più importanti e centrali figure con competenze in ambito digitale, che siano quindi in linea con queste necessità di sviluppo delle skill digital. Un altro grande filone di sviluppo sarà quello legato ai valori ESG, per i quali stiamo impegnandoci da tempo anche come azienda BCorp e con tutte quelle che sono le nostre logiche di attenzione al territorio. Di conseguenza, ritengo che queste tipologie di competenze e le risorse umane necessarie per svilupparle saranno al centro della nostra azione di recruitment, della quale ci stiamo già adoperando insieme ai miei collaboratori.

Le ultime proiezioni economiche per il 2023 sembrano salvare l’Europa e l’Italia dalla recessione. Cosa manca ancora alle imprese in Italia e cosa può e deve fare la politica secondo lei?

Sono convinto da sempre che l’imprenditore italiano sia un’eccellenza mondiale. Questo è dimostrato anche dai risultati delle nostre imprese, dai livelli di export che raggiungono. Nello stesso tempo, credo che l’imprenditore italiano, proprio come persona, abbia un limite: quello della incapacità spesso e volentieri di fare sistema, di concepirsi parte di un sistema. Noi dobbiamo quindi avere questa responsabilità nei prossimi anni, da qui al futuro, di lavorare molto per creare un sistema capace di vedere nell’imprenditore italiano non un singolo, non un unicum, ma un elemento di un tutto. In questo senso credo sia importante l’azione della politica, ed è importante lavorare in una logica anche dello sviluppo del sistema filiera. La filiera è una delle grandi eccellenza del sistema economico italiano, quindi mettere in connessione aziende che lavorano negli stessi ambiti di business, ma con la capacità di creare valore non solo per se stesse ma anche quel valore esponenziale che è dato proprio dalle connessioni. Dobbiamo lavorare su questo e sono certo che questo tipo di azione potrà permettere all’impresa Italia di crescere anche a livello dimensionale attraverso le sue PMI, che sono la spina dorsale e la vera forza del sistema Paese.

Secondo lei come si sta comportando il governo Meloni sul piano economico?

Non ritengo di essere in grado di dare patenti o giudizi all’operato del governo. Certamente posso però esprimere come imprenditore una chiara visione. Ritengo che il governo Meloni stia operando in maniera assolutamente lineare rispetto alle attese di un’economia che vuole svincolarsi dai lacci e lacciuoli che per tanti anni l’hanno trattenuta. Mi sembra di intravedere in questi mesi delle attività significativamente interessanti per una visione di un’economia più dinamica e soprattutto di un sistema imprenditoriale che venga supportato nella sua crescita, nel suo sviluppo e auspichiamo nella sua internazionalizzazione.