Il tema, di tanto in tanto, torna ad animare il dibattito pubblico. Oggi il cumulo fra pensione e reddito da lavoro è possibile a certe condizioni per determinate categorie di cittadini mentre è vietato per altri, ad esempio per chi ha lasciato la vita lavorativa con alcuni casi di anticipo pensionistico. In futuro, secondo le previsioni di alcuni economisti, lavorare anche se in pensione non diventerà solo una norma: sarà una necessità o addirittura un obbligo.
Si può lavorare durante la pensione?
Ha destato sorpresa il caso di quel pensionato al quale, per un giorno di lavoro, era stata revocata la pensione con conseguente richiesta di restituzione di quanto percepito. L’anziano aveva lavorato come comparsa in una produzione televisiva ricevendo un compenso di 78 euro netti per mezza giornata di riprese. L’Inps gli chiesto il rimborso dei ratei erogati nel 2021 e nel 2022 per un totale di 24.000 euro, per avere instaurato un rapporto di lavoro subordinato ordinario non cumulabile con la pensione Quota 100 di cui beneficiava.
Se il futuro dovesse andare come tracciato da alcuni noti economisti, queste situazioni verrebbero ribaltate: il lavoro in terza età diventerebbe la norma.
Lavorare in pensione: il destino dei 40enni di oggi
Analizzando i trend anagrafici e lavorativi, Giuliano Cazzola (già parlamentare, docente universitario e personaggio televisivo) puntualizza che nel giro di 20 anni vi saranno più di 2,5 milioni di nuovi pensionati contro 6 milioni in meno di persone in età di lavoro. Quindi sempre meno persone verseranno i contributi che servono per pagare le pensioni. Le conseguenze: gli over 65 del futuro dovranno lavorare e formarsi almeno fino ai 70 anni.
Il nodo della questione riguarda l’inverno demografico affrontato dal Bel Paese, solo parzialmente mitigato dall’immigrazione: la denatalità porta all’invecchiamento della popolazione (sul quale pesa anche la maggiore aspettativa di vita), con la conseguenza che il numero dei pensionati incide sempre di più in rapporto al numero della popolazione attiva che versa i contributi. Cazzola evidenzia che “nell’arco di una generazione si è passati dal picco storico di 1,1 milioni di nati del 1964 ai 379mila del 2023, con un tasso di natalità pari al 6,4 per mille, in calo rispetto al 6,7 per mille del 2022”.
Marcello Pacifico, presidente nazionale del sindacato Anief, commenta affermando che “fino a quando nel bilancio dell’Inps non si separerà la spesa del welfare da quella delle pensioni e lo Stato non verserà i contributi piuttosto che figurativi toccherà lavorare oltre i 70 anni”. Anief invoca dunque un intervento immediato.
Fino ad oggi il dibattito pubblico ha visto l’intrecciarsi di due logiche diametralmente opposte: da una parte la politica, anno dopo anno, tende a spingere più in avanti l’età pensionabile. Dall’altra parte si preme per mandare in pensione i senior al fine di creare nuovi posti di lavoro per i giovani.
L’innalzamento dell’età pensionabile
C’è poi l’idea proposta da Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e già sottosegretario presso il ministero del Welfare con delega alla Previdenza Sociale. Secondo Brambilla il concetto di “vecchiaia” andrebbe ripensato tenendo conto di una popolazione sempre più longeva. Brambilla auspica dunque un innalzamento dell’età pensionabile in Italia. Ma con dei paletti come una riforma del mercato del lavoro che preveda mansioni differenziate per i lavoratori più anziani, in modo tale che siano compatibili con la loro età.
Il dibattito è stato riacceso da una tesi dell’economista britannico Martin Wolf, ripresa da un recente articolo del Financial Times. Wolf, in sintesi, invoca un ripensamento dello stato sociale in vista dell’invecchiamento della popolazione. In un mondo in cui la popolazione è sempre più longeva, per Wolf andrebbe ripensato anche il concetto di vecchiaia: non un peso per la collettività, ma un’opportunità.