Università e ricerca, riforma in arrivo: cosa cambia per assegnisti e dottorati

Il pre-ruolo universitario va incontro a un'altra riforma dopo che la precedente non è ancora entrata del tutto in vigore

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Matteo Runchi

Editor esperto di economia e attualità

Redattore esperto di tecnologia e esteri, scrive di attualità, cronaca ed economia

Pubblicato: 30 Giugno 2024 20:00

In diverse città italiane sono comparsi volantini con slogan che fanno riferimento ad alcuni ruoli dei lavoratori universitari del cosiddetto pre-ruolo. Si tratta di dottorati, assegnisti, ricercatori che non sono ancora assunti come docenti, ma che svolgono parti fondamentali del lavoro di ricerca. I volantini riportano a un sito che denuncia una nuova riforma di questi lavori, dopo quella del 2022 varata dal governo Draghi.

Secondo i detrattori, la nuova legge aumenterebbe la precarietà, facendo un passo indietro rispetto a quanto ottenuto dall’ultima legge. Il governo invece intende permettere alle università di assumere più persone con contratti dal costo più basso di quelli attualmente disponibili. Nel frattempo un decreto ha ulteriormente prolungato l’esistenza degli assegni di ricerca, teoricamente eliminati dalla riforma del 2022.

La nuova riforma è circolata per ora soltanto sotto forma di bozza, ma la prossima settimana la ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini dovrebbe presentarla in Consiglio dei Ministri. Sindacati e associazioni l’hanno criticata duramente, ma il quadro del pre-ruolo è già piuttosto complesso.

Il pre ruolo universitario, la situazione prima del 2022

Il 29 giugno 2022 il parlamento ha convertito in legge il decreto Pnrr bis, che conteneva nell’articolo 14 la riforma del pre-ruolo universitario. Prima di questa riforma, la ricerca italiana era basata su tre tipi di contratto:

  • La borsa di ricerca post laurea e i contratti di collaborazione occasionale. Si tratta dei rapporti di lavoro meno tutelati nell’ambito, privi di quasi ogni diritto del collaboratore.
  • Il contratto per i ricercatori a tempo determinato (Rtd). Il più regolare dei contratti del pre-ruolo, della durata di tre anni. Si distingue tra Rtd-a e Rtd-b, dove il secondo è stipulato in vista di un’assunzione a tempo indeterminato come docente.
  • Gli assegni di ricerca. Una via di mezzo con alcune tutele, come la Dis-Coll in caso di disoccupazione, uno stipendio mensile di 1.400 euro circa e una durata tra 1 e 3 anni rinnovabile fino a un massimo di 6 anni. Si tratta però di un contratto parasubordinato, che non prevede un rapporto da dipendente.

Il principale difetto di questo sistema era la precarietà che molti addetti ai lavori lamentavano. Il grosso dei ricercatori era infatti assunto tramite contratti che non erano l’Rtd-b, quindi con poche o nessuna prospettiva di assunzione a tempo indeterminato. La riforma del 2022 riordinava completamente il pre-ruolo, modificando profondamente il tipo di contratti disponibile.

La riforma del 2022 e le critiche dei ricercatori

Il governo Draghi vara quindi una riforma nel 2022, nell’ambito dell’applicazione del Pnrr. L’idea è proprio quella di ridurre il precariato, agendo sui contratti meno stabili del pre-ruolo universitario:

  • L’assegno di ricerca viene sostituito con il contratto di ricerca. Non si tratta più di un contratto parasubordinato ma di un vero e proprio contratto a tempo determinato. La durata minima passa da uno a due anni, vengono introdotte tutele contributive e previdenziali (ferie, malattia, disoccupazione) e lo stipendio passa a 1.600 euro.
  • Cambiano anche i contratti di ricerca a tempo determinato. Rtd-a e Rtd-b vengono sostituiti dal Tenure Track, un contratto di fatto equivalente all’Rtd-b che prevede l’assunzione a tempo determinato dopo un massimo di sei anni.

Questi due interventi avrebbero di fatto rimosso una parte importante della precarietà nell’università italiana. Rimarrebbero soltanto le borse post laurea e i rapporti di collaborazione, mentre qualsiasi altro contratto avrebbe una stabilità molto superiore alle opzioni precedenti. Fin da subito però le associazioni dei ricercatori e i sindacati hanno trovato alcune criticità in questa riforma.

La più importante è che si tratta di una norma “a costo zero”. Significa che lo Stato non prevede nessun finanziamento per la sua applicazione. Questo dettaglio apre per i lavoratori del settore una falla enorme nel sistema. Come spiegato ai tempi dell’approvazione dal collettivo Re-Strike, formato proprio per criticare questa riforma da alcuni assegnasti del Dipartimenti Dicea della Sapienza di Roma, il costo di un nuovo contratto di ricerca è immensamente più alto rispetto a quello di un vecchio assegno.

Prima del 2022 a un’università bastavano 25mila euro all’anno per pagare un assegnista. Dopo, per lo stesso ruolo, gli atenei avrebbero dovuto spenderne 80mila. Il risultato, data la mancanza di fondi aggiuntivi, sempre secondo Re-Strike, sarebbe stato l’espulsione dalla ricerca di un terzo dei 15mila ricercatori italiani.

Le proroghe degli assegni di ricerca

Di fatto si sarebbe trattato di una crisi dell’intero sistema di ricerca italiano. Se il 30% degli addetti fosse stato espulso, i lavori universitari avrebbero subito un enorme rallentamento. Le università hanno fatto presente la situazione al governo, che ha infatti inserito nella legge un periodo di transizione per rendere più semplice l’adattamento alle nuove norme.

Sei mesi, fino alla fine del 2022, in cui le università avrebbero potuto continuare a bandire gli assegni di ricerca secondo la vecchia normativa. Un periodo ritenuto dalle associazioni dei ricercatori e dai sindacati del tutto insufficiente per permettere al sistema di ricalibrassi sui nuovi requisiti contro la precarietà. A questa eccezione si aggiungeva anche la possibilità di continuare a bandire contratti Rtd-a per tre anni.

Il 23 febbraio 2023 il ministero dell’Università e della Ricerca, ora sotto la guida di Anna Maria Bernini dato il cambio di governo, prorogava fino alla fine del 2023 il periodo di transizione in cui le università avrebbero potuto continuare a bandire assegni di ricerca secondo la normativa precedente al 2022. A inizio 2024 poi, un’ulteriore prolungamento della norma veniva inserito nel decreto Milleproroghe, che ogni anno allunga di altri 12 mesi la durata di centinaia di misure “temporanee”.

Si arriva così al 25 giugno 2024, quando in un intervento alla Camera dei Deputati, la ministra Bernini annuncia un’altra proroga fino alla fine del 2024 di quella stessa norma. Sono così passati due anni da quando era prevista l’entrata in vigore a pieno regime della riforma del pre-ruolo universitario del 2022 e, di fatto, nulla è cambiato all’interno del sistema di reclutamento della ricerca in Italia.

Bernini conclude però il suo intervento con una nuova prospettiva: “Proprio in questo contesto (quello del pre-ruolo universitario, ndr) si inserisce anche il disegno di legge di iniziativa governativa che porteremo la prossima settimana all’esame del Consiglio dei ministri, che disciplina in maniera organica l’accesso all’attività di ricerca, valorizzando e promuovendo un segmento fondamentale per coloro che intendono con passione dedicarcisi.”

La bozza della nuova riforma del pre-ruolo universitario

La ministra Bernini fa riferimento a una nuova riforma del pre-ruolo, già in cantiere prima che quella precedente possa essere adottata. Come dice la stessa titolare del dicastero, la riforma non è ancora stata formulata ufficialmente. Tutte le informazioni derivano da una bozza fatta circolare ai primi di giugno. La prossima settimana dovrebbe però essere presentata in Consiglio dei Ministri.

Le figure del pre-ruolo passano dalle tre previste dalla riforma del 2022 a sei in tutto:

  • Il contratto di ricerca rimane invariato. La sua applicazione è però ancora incerta, dato che sindacati e governo non sono ancora riusciti a trovare un accordo sulla contrattazione collettiva che lo riguarda.
  • La prima aggiunta è il contratto post-doc, identico al contratto di ricerca in tutto tranne che per la durata, che viene limitata da un minimo di un anno a un massimo di 3, contro i minimo 2 e massimo 6 del contratto di ricerca.
  • Tornano anche gli assegni di ricerca, con due figure, una junior una senior, assunti per chiamata diretta del docente, senza concorso, con un livello di garanzie e di tutele simile a quello dei vecchi assegni di ricerca. La loro durata è tra 1 e 3 anni ciascuno, fino a un massimo di 6 anni.
  • Le docenze a contratto vengono invece sostituite dalla figura del professore aggiunto. Altra figura assunta senza concorso dagli atenei, che potrà trattare la sua retribuzione individualmente.
  • Infine le attuali collaborazioni retribuite degli studenti (anche dette “150 ore”) saranno estese anche al supporto alla ricerca tramite il contratto di collaborazione per studenti.

Ancora incerto sarà l’iter approvativo di questa riforma. La ministra Bernini ha parlato alla Camera di un disegno di legge, escludendo quindi all’apparenza la possibilità che la riforma sia passata per decreto. La sua approvazione richiederebbe quindi prima di tutto i passaggi parlamentari e di conseguenza difficilmente vedrà la luce prima del prossimo anno accademico.

Secondo la ministra Bernini, questa riforma dovrebbe “garantire una prospettiva di interdisciplinarità, competitività e sviluppo di sistemi di ricerca innovativi […]. L’obiettivo per noi è sempre lo stesso: assicurare standard qualitativi elevati attraverso il ricorso a strumenti competitivi, interdisciplinare e innovativi, sia nel percorso di formazione del personale docente che in quello della ricerca.”

Le critiche di studenti e sindacati sul precariato nella ricerca

La riforma non piace a sindacati e associazioni dei ricercatori. L’accusa principale mossa nei confronti del governo è quella di smontare di fatto la riforma del 2022, reintroducendo la precarietà, invece di applicarla aumentando i finanziamenti delle università in modo che possano permettersi di pagare i ricercatori tramite i nuovi contratti meno precari.

“È ridicolo immaginare che uno schema di questo tipo possa ‘attrarre le eccellenze’, come dichiarato dai portavoce della ministra Anna Maria Bernini, ministra che in tutti questi mesi non ha mai trovato tempo per incontrare le organizzazioni sindacali. Si moltiplicavano accanto al contratto di ricerca figure senza inquadramento di lavoro, senza diritti e con retribuzioni infime, come le borse, e si creavano figure di docenza sganciate dalla ricerca, precarie e al contempo strutturali” ha dichiarato Gianna Fracassi, segretaria generale della Flc Cgil al quotidiano la Repubblica, che per primo aveva anticipato la bozza della riforma.

Commenti duri anche da parte dell’Unione degli universitari: “Non possiamo accettare la progressiva riduzione del ruolo della ricerca, che rischia di marginalizzare la sua importanza anche nei percorsi formativi. L’Italia continua ad essere fanalino di coda in Europa e la scarsa attrattività non stupisce dato il disinvestimento in termini economici e umani nel settore dell’alta formazione e della ricerca”.

Nessun commento invece da parte della Conferenza dei rettori universitari italiani a riguardo. Gli stessi sindacati però sottolineano il ruolo avuto nella stesura della bozza da parte dell’ex presidente Ferruccio Resta, che durante il suo mandato, nel 2021, ha firmato un documento dal contenuto simile a quello della bozza di riforma.