Le cause legali che hanno a oggetto la contestazione di licenziamenti sono numerosissime. E quando è la Cassazione a mettere la parola fine alla disputa giudiziaria, non sempre le conclusioni accontentano tutti. Ne è un esempio la sentenza 22593 di quest’anno, con cui i giudici di piazza Cavour hanno dato torto al datore di lavoro che ha espulso il dipendente per danneggiamento dell’auto di un collega.
Vediamo insieme la vicenda e la decisione della Suprema Corte, spiegandone l’esito in qualche modo inaspettato e chiarendo qual è il suo messaggio generale.
Indice
L’atto vandalico, la disputa legale e l’esito del primo grado
La vicenda all’apparenza abbastanza inusuale, invita a riflettere sulle possibili conseguenze di un gesto di questo tipo. Un dipendente, appena giunto nel parcheggio dell’azienda a bordo di una vettura condotta da un terzo, ha aperto la portiera, è sceso dal mezzo e ha sputato sull’automobile di un collega, dando un calcio al suo specchietto anteriore sinistro. Non un calcio di forza lieve, visto che – come ricostruito nei fatti di causa – l’oggetto è stato rotto, staccato e poi portato via dall’uomo.
Un atto vandalico che non passò affatto inosservato e che, anzi, giunse a conoscenza del datore il quale, a seguito di un procedimento disciplinare, inflisse il licenziamento nei confronti dell’uomo, evidentemente ritenuto colpevole di una reazione spropositata e violenta, qualunque fosse la sua causa.
Il danneggiante non si arrese all’espulsione e contestò la decisione datoriale, percorrendo le vie legali. In primo grado, il giudice del lavoro valutò il gesto sanzionabile con una mera sanzione conservativa. La ragione è che il gesto veniva ricompreso nella clausola generale di cui all’art. 53, lettera h, del Ccnl dell’industria gomma-plastica, per il quale è punibile con multa o sospensione il dipendente che:
in qualunque modo trasgredisca alle norme del presente contratto, dei regolamenti interni o che commetta mancanze recanti pregiudizio alla disciplina, alla morale o all’igiene.
Il ribaltamento della decisione giudiziaria in appello, sì al licenziamento
In secondo grado la disputa proseguì con l’impugnazione dell’azienda e di diverso avviso fu il giudice d’appello, che infatti ribaltò l’esito ritenendo giusto il licenziamento. Il magistrato definì il gesto di danneggiamento una grave infrazione al codice disciplinare applicabile e un comportamento incivile e anti-etico, tanto più se commesso all’interno di un perimetro aziendale come il parcheggio riservato ai dipendenti.
In particolare, per giungere all’opposta decisione, la magistratura considerò l’art. 54 dello stesso contratto collettivo, secondo cui:
Il licenziamento con immediata rescissione del rapporto di lavoro può essere inflitto, con la perdita dell’indennità di preavviso, al lavoratore che commetta gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro o che provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale, o che compia azioni delittuose in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro.
In buona sostanza, il giudice valutò il merito della questione leggendo il Ccnl da una differente “angolazione”. Così ha ritenuto che l’atto vandalico in oggetto rientrasse tra quelle gravi infrazioni per cui il codice disciplinare stabilisce la sanzione espulsiva.
L’inaspettata scelta della Cassazione e l’annullamento della sentenza
Un nuovo colpo di scena arrivò in Cassazione, dove la disputa continuò. Infatti, per la Suprema Corte il comportamento del dipendente non era così grave dal punto di vista disciplinare, da giustificare il licenziamento disciplinare. Anzi, essendo avvenuto fuori dall’orario di lavoro, non poteva dirsi direttamente o causalmente collegato allo svolgimento delle mansioni. Conseguentemente, secondo i giudici di piazza Cavour – ed è questo l’elemento che potrà far sobbalzare più di un datore – non giustificava alcuna decisione espulsiva dell’azienda, ma al massimo una multa o sospensione.
È interessante notare che i giudici hanno annullato la precedente decisione, perché hanno fatto specifico riferimento non una certa norma di legge, ma al contratto collettivo applicabile a quel contesto aziendale, quello dell’industria gomma-plastica. Nel suo testo, così come interpretato dalla Corte:
- la sanzione diversa dal licenziamento è inflitta sia per le omissioni, che per le azioni come ad es. gli atti vandalici in oggetto (danneggiamento di automobile);
- la gravità del comportamento non è un criterio per distinguere tra sanzioni conservative ed espulsive.
Come accennato, il gesto di vandalismo non era stato commesso durante lo svolgimento delle prestazioni lavorative (ad es. si pensi al lancio dello smartphone del collega in uno scatto d’ira in ufficio) e, proprio per questo, il Ccnl escludeva la perdita del posto di lavoro. Ecco perché la Cassazione ha ritenuto sproporzionata l’espulsione e annullato la sentenza d’appello.
Che cosa cambia
La sentenza della Cassazione invita a riflettere sulle conseguenze di un atto di vandalismo ai danni di un collega. Se vale il ragionamento della Corte, un gesto di questo tipo – pur palesemente incivile e rozzo – non espone comunque alla massima sanzione disciplinare. I giuristi si interrogano sulla correttezza di un tale esito, che lascerebbe “indenni” tanti possibili casi danneggiamenti che coinvolgono almeno due lavoratori.
A ben vedere, di mezzo c’è l’elemento della fiducia dell’azienda nei confronti del proprio dipendente e il dettato delle regole civilistiche in tema di buona fede, lealtà e correttezza nel rapporto di lavoro. Fatti come questo non possono che incidere profondamente sull’affidamento datoriale nella capacità del dipendente di saper gestire i rapporti interpersonali in ufficio di lavoro e i possibili conflitti.
Il suggerimento è quello di non farsi mai trascinare dall’ira o dall’impulsività, nonostante una sentenza come questa. Di mezzo c’è pur sempre il vincolo fiduciario e non è affatto escluso, in futuro, che la Cassazione adotti un orientamento del tutto opposto, magari con decisione delle Sezioni Unite.
Concludendo, la sentenza 22593/2025 evidenzia che i codici disciplinari, spesso formulati con clausole generiche, lasciano ampi margini di interpretazione. A ciò si aggiunge una normativa sul licenziamento stratificata e frammentaria, frutto di interventi legislativi successivi e non sempre coerenti tra loro. Questo quadro, insieme alle varie possibili interpretazioni di un Ccnl, rende difficile prevedere con certezza l’esito di un giudizio. Ne derivano insicurezza per i lavoratori, che non sanno – in anticipo – quali condotte siano davvero sanzionabili, e per i datori, che non hanno garanzie sulla legittimità dei provvedimenti.
Per questo motivo, un intervento legislativo chiaro e organico è considerato ormai indispensabile. Altrimenti sentenze come quella in oggetto non saranno altro che il risultato di una incoerente e disorganica stratificazione di regole.