Great Resignation: l’identikit di chi fugge dal lavoro

Sanità ed edilizia tra settori più colpiti. In aumento le dimissioni tra le donne.

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Redazione

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Prosegue in Italia il fenomeno delle dimissioni volontarie anche senza il paracadute di un nuovo contratto. Tendenza che, sebbene appaia ancora lontana, per dimensioni ed estensioni, da quella “Great Resignation” che negli Stati Uniti sta mettendo in grossa difficoltà le imprese e il mercato del lavoro e che ha visto, con l’emergenza pandemica, crescere mese dopo mese l’abbandono volontario dal lavoro di milioni di occupati, spinti dalle ragioni più diverse, inizia a destare preoccupazione anche nel nostro Paese. Nei primi nove mesi del 2022 – secondo i dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie al Ministero del Lavoro – sono oltre 1,6 milioni i lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni, un numero in crescita del 22% rispetto allo stesso periodo del 2021, quando ne erano state registrate più di 1,3 milioni.

Identikit dei lavoratori dimessi

A decidere di lasciare il lavoro sono soprattutto giovani (43,2% sul totale), a bassa scolarizzazione (54,4%) e residenti al Nord (56,4%). A tracciare l’identikit è l’indagine “Le dimissioni in Italia tra crisi, ripresa e nuovo approccio al lavoro”, realizzata da Fondazione Studi Consulenti del Lavoro sulla base dei dati raccolti tra il 2019 e il 2021. Nel 43,2% dei casi si tratta di giovani con meno di 35 anni e nel 13,1% di giovanissimi, con meno di 24 anni. Se tale dato è riconducibile alla maggiore attrattività e propensione alla mobilità che i
giovani lavoratori hanno sul mercato rispetto ai più adulti, colpisce rinvenire anche la quota importante di dimissionari nelle fasce più adulte, nelle quali la condizione occupazionale tende ad essere più stabile: il 18,1% ha tra i 45 e 54 anni mentre il 16,4% più di 55 anni. A livello geografico, il fenomeno tende a fotografare la distribuzione dei lavoratori, con il 56,4% delle dimissioni avvenute al Nord, il 23,7% al Sud e il 19,9% al Centro, mentre colpisce l’incidenza tra i lavoratori con titoli di istruzione bassa: ben il 54,4% dei lavoratori che hanno presentato le dimissioni nei primi nove mesi del 2021 ha un titolo di studio inferiore al diploma superiore; solo il 14,5% ha una laurea mentre il 31,1% un diploma di istruzione superiore.

In aumento il numero di dimissioni delle donne

Se nel 2021 le dimissioni tra gli uomini –  rispecchiando la proporzione tra i due generi nel mercato del lavoro – sono state la maggioranza (58,7% contro il 41,3% delle donne), nel terzo trimestre 2022 su 562.258 lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni 317.734 erano uomini e 244.524 donne, ovvero +22.717 donne e +12.257 uomini. Nel confronto congiunturale tra il secondo e il terzo trimestre 2022 – stando ai dati riportati dal Sole 24 ore sulla base delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro – si contano più dimissioni tra le donne (+4.386) che tra gli uomini (-25.915).

Le tendenze nel periodo post pandemico

Il confronto tra i primi tre trimestri del 2019 e del 2021 evidenzia un incremento delle dimissioni soprattutto tra i segmenti tradizionalmente meno interessati dal fenomeno, in particolare gli adulti, i laureati e tutti i lavori qualificati. A fronte, infatti, di una crescita media del 13,8% dei lavoratori che scelgono di lasciare la propria occupazione, tra i 45-55enni e gli over 55enni il valore sale rispettivamente al 17% e 21,5%. Anche tra i laureati il fenomeno è più accentuato (17,7% contro il 12,9% dei diplomati e il 13,3% di chi ha titolo di studio inferiore), mentre a livello geografico spicca il caso del Sud, dove tra 2019 e 2021 si è registrato un aumento dei lavoratori che si sono dimessi del 18,2% contro il 14,3% del Nord e l’8% del Centro. Se da un lato, l’esplosione del fenomeno sembra trainata da una logica di abbandono di lavori poco soddisfacenti dal punto di vista contrattuale ed economico (aumenta del 18,1% il numero dei lavoratori che lasciano un contratto temporaneo e “solo” del 9,4% quello di chi lascia un contratto a tempo indeterminato), con riferimento alla professione, la crescita più significativa si registra ai vertici e alla base della piramide professionale: tra le professioni non qualificate, vi è un incremento del 23%, lo stesso registrato tra le professioni intellettuali e ad elevata specializzazione (+22%).

Sanità ed edilizia tra settori più colpiti

Anche tra le professioni tecniche aumenta la propensione a dimettersi, con una crescita del 19,4%, mentre non si registrano particolari cambiamenti nelle professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, che pure contribuiscono di misura ad alimentare il fenomeno: tra 2019 e 2021, il numero di coloro che si dimettono resta praticamente uguale. Entrando nel dettaglio delle stime, da prendere con le dovute cautele, si evidenzia una crescita del tutto particolare tra le professioni della salute, sia ad elevata specializzazione (+44,6%) sia tecniche (+47,4%), così come tra gli operai specializzati nell’edilizia (+32,5%) e in quelli non specializzati (+48%). Ancora una volta, sanità e costruzioni sono sicuramente i settori che, per ragioni diverse, sono stati più interessati dal
fenomeno. Si stima che nelle costruzioni, l’incremento delle persone che si sono dimesse tra 2019 e 2021 sia stato pari al 47,1%, mentre nel comparto sanità e assistenza sociale la crescita è stata del 33%.