Troppo caldo al lavoro? Per i sindacati la soluzione è una sola

Il caldo estivo mette a rischio la salute di molti lavoratori, non solo nei cantieri o nei campi. Il caso di un postino colpito da insolazione riapre il dibattito

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Il caldo estivo è un pericolo concreto per numerose attività lavorative all’aperto. Non solo chi lavora nell’edilizia e nei cantieri, o nell’agricoltura, nelle strade oppure ancora chi lavora in ambienti interni ad alta temperatura (si pensi ad es. ai panettieri o ai magazzinieri), a rischiare problemi di salute sono anche i postini.

Recentemente ha destato un certo clamore la notizia – data dalla Cgil – secondo cui un portalettere cinquantenne, attivo nel territorio veneto, è finito al pronto soccorso, per le conseguenze di un’insolazione subìta durante l’esercizio delle mansioni di consegna della corrispondenza.

Inail ha qualificato l’evento come infortunio sul lavoro per stress termico ma, soprattutto, le sigle sindacali hanno colto l’occasione per porre l’attenzione sul tema dell’afa nelle ore di lavoro, chiedendo a gran voce che le ordinanze territoriali pubblicate in questi giorni siano estese e applicate anche a mansioni diverse da quelle a rischio più evidente, come ad es. le attività nei campi o sui ponteggi.

Vediamo più da vicino la vicenda e cerchiamo di capire quale potrebbe essere l’impatto effettivo delle richieste avanzate dalla Cgil.

L’insolazione, la prognosi del medico e il botta e risposta sindacato-Poste Italiane

Nella vicenda in oggetto, dopo le ore di lavoro il postino aveva manifestato uno stato di malessere tale da costringerlo a recarsi in un pronto soccorso di Verona. Visitandolo, il medico indicò tre giorni di prognosi per problemi dovuti al contatto eccessivo con i raggi solari. Ma ciò che qui in particolare ha importanza è che – grazie anche all’intermediazione sindacale – Inail ha qualificato l’evento come infortunio per stress termico. Infatti, il problema scaturito dal caldo si è verificato in occasione di lavoro, è stato causato da un fattore esterno e traumatico e ha prodotto una lesione fisica identificabile (le scottature).

Con tre giorni di prognosi – e conseguente assenza dal lavoro (comunque retribuita dall’azienda) senza bisogno di usare ferie o permessi – l’attenzione del sindacato si è spostata immediatamente al comportamento del datore. Anzi, la Cgil ha segnalato la palese responsabilità di quest’ultimo, perché non ha adottato tutte le misure necessarie ad attenuare il rischio microclima, così come indicate dalle linee guida Inail – come ad es. la rimodulazione di orario o l’introduzione di pause extra per evitare le ore di massimo calore.

Sul punto Poste Italiane si è però difesa in una apposita nota scritta, emessa pochi giorni fa. Nel documento l’azienda spiega di aver in verità adottato da tempo una serie di misure di tutela anti-caldo, come ad es. corsi di formazione al personale, utilizzo del portale Worklimate, localizzazione del rischio termico, pause obbligatorie e straordinarie (in ambienti ombreggiati o climatizzati) durante l’orario lavorativo e borracce termiche per chi svolge funzioni di consegna pacchi e lettere.

In questo botta e risposta con i sindacati, l’azienda ha anche precisato che – nelle giornate a rischio elevato – i dipendenti classificati come “iper-suscettibili” e – al di là delle condizioni di salute – gli over 60, non sono tenuti a svolgere attività all’aperto. Sostanzialmente, Poste Italiane ha così qualificato l’incidente al postino come una sorta di evento eccezionale e contro cui ha adottato un pacchetto di strumenti ad hoc.

Le richieste di Cgil mirano all’estensione della portata delle ordinanze anti-caldo

Cgil ha colto la palla al balzo, per spostare la questione a un livello generale. Infatti, se da un lato il sindacato si è detto soddisfatto del fatto che Inail abbia qualificato l’infortunio sul lavoro come dovuto a stress termico, dall’altro ha rimarcato che sarebbe necessario un maggior impegno e slancio delle istituzioni.

Sostanzialmente, le ordinanze emanate in questi giorni dalle regioni dovrebbero avere e garantire una portata più ampia, non applicandosi soltanto a chi lavora nei campi o nell’edilizia, ma anche a tutti i dipendenti che – in vario modo – si trovano a lavorare subendo gli effetti del termometro. Anzi, è proprio il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro a giustificare l’auspicata estensione, nel nome della piena tutela di tutti i lavoratori che sono potenzialmente a rischio.

In altre parole, ci sono tuttora nelle “falle” nel sistema della sicurezza e vanno risolte, mentre quanto previsto dall’ordinanza della regione Veneto che vieta il lavoro in condizione di esposizione solare prolungata dalle 12.30 alle 16 – valida per contadini e muratori e quindi non in modo “generalizzato” – è solo un tassello di un mosaico della sicurezza, che andrebbe completato con regole onnicomprensive.

Che cosa cambia

A ben vedere, questa vicenda segna un precedente importante ai fini della prevenzione. Infatti, il riconoscimento formale dell’infortunio per stress termico, da parte di Inail, obbliga sempre – o dovrebbe sempre obbligare – il datore di lavoro a valutare scrupolosamente il rischio da stress termico nel DVR (Documento Valutazione Rischi), modificare orari, turni o mansioni in caso di temperature alte, fornire sempre dotazioni adeguate (acqua, copricapo, pause all’ombra) e, non meno importante, evitare la reiterazione del rischio, per non andare incontro a sanzioni.

Gli esempi delle possibili estensioni degli effetti delle ordinanze, di certo non mancano. Si pensi a chi lavora nella logistica o nella distribuzione urbana, o a chi è impegnato nei servizi di raccolta rifiuti e di igiene, oppure ancora a chi lavora in ambienti chiusi ma non climatizzati (come officine, panifici o magazzini).

Le alte temperature – si sottolinea – non sono un rischio soltanto all’esterno (e per conseguente siccità). Infatti, in molti ambienti interni non climatizzati si raggiungono temperature ben superiori a quelle esterne, con pericoli reali per la salute dei dipendenti. Le ordinanze locali potrebbero allora prevedere soglie critiche di temperatura ambiente, oltre le quali scattano obblighi di sospensione o rimodulazione dell’attività, oltre che la dotazione di strumenti per il monitoraggio del microclima e di dispositivi di protezione personale.

In definitiva, l’obiettivo sindacale è chiaro: trasformare la logica emergenziale in una normativa strutturata e inclusiva, capace di prevenire concretamente situazioni di rischio per la salute dei lavoratori, indipendentemente dal settore o dalla specifica mansione. Il caso del postino veneto è soltanto uno dei tanti, ma dimostra che il percorso verso una piena tutela dei lavoratori contro il caldo, è ancora lungo.