Passaggio generazionale: il male oscuro delle imprese italiane

Abbiamo chiesto al prof. Diego Polo-Friz se c'è una via d'uscita. Perché "piccolo non è bello". Anzi spesso è un problema

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Barbara Del Pio

Giornalista

Responsabile editoriale dei magazine di Italiaonline. Scrive di attualità, innovazione e sport. Cerca e racconta storie ed idee notevoli

Piccolo non è bello. Anzi spesso è un problema. Le vicende della nostra economia sono la fotografia più nitida di questi fenomeni. Il tessuto industriale è caratterizzato da realtà di dimensione ridotta, con fatturati spesso sotto i 10 milioni di euro. Aziende che non hanno potuto o voluto creare i presupposti per avviare processi di managerializzazione. Il risultato? Un numero impressionante di attività non sopravvive, chiude. A volte per un semplice motivo: il fondatore va in pensione. Esiste una via d’uscita? Lo abbiamo chiesto al prof. Diego Polo-Friz, autore del libro “Sin da quand’ero piccolo volevo fare il direttore generale: un metodo per gestire un’azienda” che ci indica quali sono le linee di gestione e manageriali che ogni organizzazione dovrebbe avere per superare crisi e passaggi generazionali. Insomma, per diventare un’impresa di successo.

Il passaggio generazionale è un momento cruciale dell’azienda: è vero che molte imprese non sopravvivono alla fine della leadership del fondatore?
Certo. Ed è anche vero anche che molte di quelle che sopravvivono al primo passaggio, non riescono a fare il secondo, e via dicendo. Naturalmente in alcuni casi questo succede per motivi inevitabili. Ad esempio, l’azienda non aveva un prodotto all’altezza o una struttura distributiva di qualità. Si era impegnata per cercare le risorse per affrontare questi investimenti, e non le aveva trovate. Il problema è che in tanti altri casi la morte avviene, o perché l’azienda non si è preparata al passaggio (mentre poteva farlo), o addirittura perché non ha voluto prepararsi. Lo dico in modo aneddotico, ma ho sentito diversi imprenditori dire che al momento del loro ritiro dal lavoro avrebbero liquidato l’azienda. Quello che succedeva “dopo di loro” era irrilevante.

Ma quali possono essere le causa di questa situazione paradossale?
Molte. Spesso l’azienda vale poco, perché mal gestita. Vendere a poco viene percepito come la sconfitta di una vita, e quindi non viene fatto. Vendere a un concorrente? Raro. Vendere ai dipendenti? Altrettanto. Oppure è banale egocentrismo: dopo di me, il niente. Non sarebbe la prima volta.

Quanto incide sul fenomeno la carenza di una cultura manageriale nelle Pmi italiane?
Parlare di temi culturali è sempre delicato ed è molto facile scadere nella banalità. È un dato di fatto che il nostro nanismo industriale non aiuta. Ci dobbiamo arrendere all’evidenza che “piccolo è bello”, ma solo per poco tempo. Dopo bisogna crescere e attrezzarsi. Pena la morte aziendale. Non saremo fortunati come gli americani, che hanno un mercato domestico gigantesco e sono partiti prima, ma abbiamo molte più potenzialità rispetto a tanti altri paesi. Ed è chiaro che quando l’azienda si attrezza, ad esempio dotandosi di una squadra di manager professionisti, molti dei temi relativi al passaggio generazionale scompaiono.

Esistono dei requisiti normativi per gestire in maniera efficiente il cambiamento?
Non ne conosco. E il lavoro che si potrebbe fare, è sterminato. Limiti di età per gli amministratori (lo fa anche la chiesta cattolica per l’elezione del papa). Oppure, documentazione di un piano di successione, all’avvicinamento delle soglie di età di cui sopra. O anche, ingresso di consiglieri veramente indipendenti in consiglio (magari estratti a sorte da un albo, e con protezioni sul loro profilo di responsabilità). E infine, offerta dell’azienda ai dipendenti o al mercato, come passo precedente alla liquidazione. Tutti come obblighi normativi e con sanzioni personali in caso di violazione. Tra l’altro sono anche cose molto facili da controllare, ad esempio dai sindaci dell’azienda.

Un imprenditore come deve comportarsi con i figli? È innegabile che questo rapporto, nel bene o nel male, abbia influenza sulla scelta
Il titolo di proprietà è il fulcro della civiltà capitalista, quindi non penso lo vogliamo mettere in discussione. Spesso, il problema è al contrario, ossia dei genitori che non permettono ai figli di “volare”. Una volta ho sentito un giovane che diceva: “Non voglio fare la fine di mio padre”. Il problema addirittura riguardava la presenza dei nonni.

Nel suo libro, indica delle regole per una corretta leadership. Da quale di queste si deve partire per un passaggio generazionale indolore?
Da una molto banale. Che il lavoro principale dell’imprenditore è quello di proteggere la nave. Una nave sicura, ossia un’azienda forte, è in grado di accontentare tutti, azionisti e dipendenti in primis. Se invece l’obiettivo è diverso, ad esempio la mera gratificazione personale, le cose vanno male molto rapidamente. Non è facile, è chiaro, ma chi cade in tentazione poi ne paga le conseguenze.

Un’impresa orientata alla strategia e poco alla gestione – finanziaria, delle persone – è in grado di sopportare la successione da un imprenditore all’altro?
Sognare è importante. Ma poi bisogna dedicarsi a “fare” le cose. Ossia a curare bene l’operatività quotidiana. Faccio un esempio banale: ogni imprenditore dovrebbe avere un controllo ferreo sui numeri e sui risultati economici. Se no come fa a sapere se la nave è protetta? Tantissime aziende, anche insospettabili, non lo fanno. Una volta ho chiesto al titolare di attività con 100 dipendenti: quanti soldi guadagna la sua azienda? Risposta: io di queste cose non mi occupo. No comment.

Nel libro parla del mito dei grandi condottieri, spesso utilizzato per i fondatori di un’impresa. Quanto questa mitizzazione è in grado di pesare negativamente sui successori?
Essere l’erede di una figura mitica non è facile. Ma oggettivamente, nessuno è insostituibile. Anche perché nessuno, neanche la figura mitica, era esente da errori e debolezze. La soluzione per i successori? Nel dubbio, focalizzarsi sulla parte di metodo. Sarà meno affascinante come modello, ma sono abbastanza sicuro che funzioni. Basta dedicarsi con serietà, studiare come fare (le soluzioni sono note da decenni), ed essere rigorosi nell’applicazione.

Avere un management all’altezza significa perdere il controllo dell’azienda?
Io personalmente preferirei essere a capo di un gruppo di persone di qualità, che dibattono. Invece che dirigere delle persone di scarso valore, che non mettono mai in dubbio quello che dico. Sarà più sfidante, ma se sono in grado di ottenere questo risultato, vuol dire che sono un capo o una capa di grande valore.

Un’impresa capace di gestire e anche pronta ad affrontare eventuali crisi economiche?
Certamente. Sia perché si è attrezzata per prevenire i rischi tipici della crisi. Ad esempio: sa bene come affrontare il caso purtroppo dilagante dei clienti che non pagano. Sia perché grazie alla gestione è diventata più grande, più diversificata e quindi maggiormente in grado di affrontare le situazioni avverse.