L’ombra della censura sulla risposta cinese a ChatGPT

Il bavaglio cinese non colpisce solo i social media, ma anche i nuovi chat bot autorizzati da Pechino, a patto che non generi contenuti politici

Foto di Mirko Ledda

Mirko Ledda

Editor e fact checker

Scrive sul web da 15 anni, come ghost writer e debunker di fake news. Si occupa di pop economy, tecnologia e mondo digitale, alimentazione e salute.

Baidu, una delle aziende leader nel campo della tecnologia e dell’intelligenza artificiale in Cina, ha annunciato una notizia molto attesa. Renderà disponibile il suo potente modello di linguaggio, chiamato Ernie Bot, al grande pubblico. Lanciato nel cuore di marzo, è stato il primo concorrente cinese dell’acclamato ChatGPT di OpenAI. Da allora numerose altre aziende tecnologiche di Pechino, compresi Alibaba, il colosso dell’e-commerce, e ByteDance, la realtà dietro TikTok.

L’accesso a queste tecnologie è stato però limitato, finora, con liste d’attesa immense e procedure di registrazione che non hanno consentito agli utenti medi di sperimentarne il grande potenziale. Le autorità della potenza orientale hanno finalmente concesso una prima tranche di autorizzazioni, che dal 31 agosto 2023 permettono l’uso libero di otto chatbot generativi basati sull’intelligenza artificiale.

Tra questi figurano anche Doubao, di ByteDance, e Zidong Taichu 2.0, dell’Istituto di Automazione dell’Accademia Cinese delle Scienze. Nonostante i diversi linguaggi generativi utilizzati, avranno tutti un’importante limitazione riguardo i contenuti.

Stop alle restrizioni per l’accesso ai chatbot cinesi

Vengono finalmente meno le difficoltà di accesso, che hanno interessato fin dall’inizio il chatbot Baidu, il Google cinese, come l’ha definito qualcuno. Già all’evento di lancio non era stata prevista una dimostrazione dal vivo, e gli utenti hanno dovuto attendere la release ufficiale per poter testare il nuovo giocattolo della big tech orientale.

Per usare Ernie Bot, infatti, era necessario essere in possesso di un account Baidu e di una licenza d’uso, con lunghe liste d’attesa. C’è chi infatti ha aspettato ben tre mesi per riceverne una. Non sono mancati i furbetti, che le hanno rivendute e acquistate al mercato nero, anche per centinaia di euro.

La legge che censura le alternative cinesi a ChatGPT

Alla base delle restrizioni ci sono state le direttive del governo, che si è preso del tempo per verificare il codice dei nuovi chatbot cinesi e trovare strategie per censurarlo. Se bloccare contenuti sui social media, infatti, è ormai una pratica comune e agevole per Pechino, fermare testi autogeneranti si è dimostrata una vera sfida.

I modelli di linguaggio avrebbero infatti potuto generare informazioni politicamente sensibili e non gradite al Partito Comunista e ai suoi vertici. La macchina della censura si è mossa rendendo obbligatorio dei meccanismi di moderazione che impediscono ai chatbot di parlare della questione di Taiwan e delle Due Cine o del presidente Xi Jinping.

La normativa specifica per i servizi basati sull’intelligenza artificiale generativa, emanata a luglio, prevede che le aziende ottengano delle licenze amministrative da parte della Cyberspace Administration, l’organo che si occupa di regolamentare il mondo digitale e l’uso di internet da parte dei cittadini.

La distribuzione dei codici, ora accessibili a 1,4 miliardi di cinesi, potrebbe tuttavia aprire le porte a nuovi ingegnosi modi per aggirare il bavaglio, magari insegnando all’AI stessa a utilizzare dei sinonimi delle parole bloccate dai sistemi. Insomma quello che avviene già con le controparti occidentali per i testi e le immagini vietati, magari perché sessualmente espliciti o riguardanti pratiche illegali o immorali. Fatta la legge, come si è soliti dire in questi casi, trovato l’inganno.