Oltre all’orrore delle stragi, la guerra in Ucraina ha riportato alla ribalta anche il tema dell’energia. E, nelle ultime settimane, è cresciuto il dibattito attorno alla cosiddetta “greenflation”. Ma di cosa si tratta esattamente? Cominciamo col dire che è legata alle fonti rinnovabili e, in particolare, all’aumento dei prezzi dei metalli e dei materiali essenziali per la produzione di energia “pulita”, come quella solare o eolica.
La sempre crescente domanda di energia ha però posto il problema della sostenibilità dell’offerta. Il settore delle rinnovabili non è infatti ancora in grado di soddisfare l’ingente richiesta del mercato. E la situazione è complicata ulteriormente dal prezzo sempre più alto delle materie prime e dalla condizione in cui versa la transizione ecologica.
Inflazione energetica: cos’è e quanto ci costa
Tecnicamente la greenflation (green + inflation) rappresenta l’inflazione generata dalla transizione ecologica. La causa, come accennato, è da ricercare nell’aumento dei prezzi dei materiali essenziali per produrre energia rinnovabile. Un fenomeno tutt’altro che passeggero, come ha sottolineato la Bce contraddicendo gli altri principali istituti centrali. Una lama a doppio taglio: se da un lato la transizione verso l’energia verde è necessaria, dall’altro è probabile che crei per l’appunto inflazione (qui abbiamo parlato di tutti gli aiuti alle famiglie nel decreto Energia: cosa cambia).
Il conflitto russo-ucraino, il rincaro del petrolio e l’aumento vertiginoso dei prezzi del gas naturale in Europa hanno confermato i diffusi timori inflazionistici. A tal proposito, il bando imposto da Stati Uniti e Gran Bretagna sull'”oro nero” russo e l’annuncio dell’Ue di voler ridurre di due terzi il gas di Mosca entro la fine dell’anno avranno, con ogni probabilità, pesanti ricadute sui costi di produzione e vendita. A complicare il tutto concorre l’accelerazione della transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio.
La descrizione più efficace del meccanismo della greenflaction è stato forse fornito da chi ha utilizzato per primo il termine, e cioè Ruchir Sharma, importante fund manager indiano ed editorialista del Financial Times. L’inflazione green sarebbe il “risultato involontario di un paradosso economico”: “Più forte si spinge sulla transizione verso un’economia più verde, più costoso diventa il tentativo, e meno probabilità si avranno di raggiungere l’obiettivo di limitare i peggiori effetti del riscaldamento globale”.
Basta dare uno sguardo ai numeri per valutare la gravità degli scenari attuali e possibili. In Europa l’inflazione media a dicembre ha toccato il livello record del 5%. Un dato che fa spalancare gli occhi, se si considera che per anni le banche centrali hanno provato invano a far risalire l’inflazione verso il 2%. Questo aumento dei prezzi è spinto in gran parte dal settore energetico, che da solo è cresciuto più di 5 volte (+26%).
Il problema delle materie prime: cosa fa aumentare i prezzi?
Oltre alla guerra che continua a devastare l’Ucraina e a destabilizzare i mercati, i motivi che spingono i prezzi verso l’alto sono sostanzialmente due.
Il primo motivo riguarda il costo delle materie prime come rame, alluminio, litio e nichel, insostituibili per batterie per realizzare auto elettriche, pale eoliche e pannelli solari. Questi materiali però scarseggiano e sono costosi da estrarre, oltre che altamente concentrati in poche aree geografiche. E, per di più, non sono presenti in quelle parti del mondo che puntano maggiormente sulla transizione ecologica, come Occidente e Cina. La domanda sempre più insistente ha ovviamente fatto impennare i prezzi. Dagli 8mila dollari di gennaio 2021, una tonnellata di rame ha raggiunto il costo record di 11mila dollari a marzo 2022. Il prezzo dell’alluminio è invece raddoppiato in un solo anno, raggiungendo a marzo i 4mila dollari a tonnellata.
Il secondo motivo riguarda lo stato non ancora maturo del comparto delle rinnovabili (qui abbiamo detto in quali Paesi le rinnovabili sono al top, dalla Svezia all’Austria e alla Lettonia). Lo ha spiegato bene Isabel Schnabel, membro esecutivo del board della Banca centrale europea: “Questa insufficiente capacità produttiva delle fonti rinnovabili nel breve periodo, unita ai ridotti investimenti in combustibili fossili e all’aumento dei prezzi del carbone, indica che rischiamo di fronteggiare possibili periodi prolungati di transizione in cui le bollette energetiche aumenteranno. I prezzi del gas sono un caso emblematico”.
La greenflation è quindi un problema che colpisce maggiormente i Paesi distanti dai siti d’estrazione delle materie prime, ma anche quelli con più vincoli politici. Come spiegano numerosi esperti intervistati dal Financial Times, al di fuori dell’Unione europea le banche centrali hanno più possibilità di manovra sui tassi di interesse. Non solo: i piani governativi hanno posto all’industria meno “paletti” green da rispettare.
Rinnovabili, a che punto siamo
In ambito green, l’Europa sembra dunque procedere a due velocità. Da un lato il processo di transizione ecologia è ormai irreversibile, dall’altro il settore delle rinnovabili non è in grado di produrre l’offerta di energia necessaria a soddisfare la domanda crescente.
Nel 2020 e nel 2021 le installazioni globali di energia eolica e solare hanno raggiunto livelli record, così come le vendite di veicoli elettrici. Dopo la Cop 26 di Glasgow, l’obiettivo “zero” è arrivato a riguardare il 90% delle emissioni globali. Dall’altro lato, però, la crisi dell’energia e delle materie prime e le sfide geopolitiche sembrano configurare una brusca frenata del Green Deal globale.
Per più di dieci anni il settore dell’energia rinnovabile ha abbattuto le spese e gli impianti sono arrivati a costare dieci volte meno. Il boom dei prezzi nel 2021 di acciaio, rame, litio, silicio policristallino e altre materie ha portato all’aumento dei costi in un settore fino ad allora in costante deflazione. Gli effetti si sono poi estesi alle catene di approvvigionamento. I prezzi dei moduli solari fotovoltaici, ad esempio, erano di 270 dollari/Megawatt alla fine del 2021, contro il minimo di 190 dollari/Megawatt del 2020. Il prezzo delle turbine eoliche, nella seconda metà del 2021, è invece aumentato del 9% a 930 dollari/Megawatt (dati Bloomberg).
In parole povere il mondo si trova in una situazione di grande incertezza. Facendo il punto: gli investimenti nei combustibili fossili sono stati ridotti per via del timore che presto la domanda di petrolio sarà molto minore. Al contempo le fonti rinnovabili non producono a sufficienza, i prezzi delle materie prime continuano a crescere perché la transizione ecologica coinvolge numerose nazioni e, infine, la domanda di energia è molto elevata.
Come gestire la greenflation? Tre possibili soluzioni
- Prima soluzione: le comunità energetiche
Per abbattere i costi, un gruppo di utenti può sfruttare in comune l’energia elettrica prodotta da un impianto locale di energia rinnovabile, come i pannelli solari installati su case vicine tra loro. È il principio delle cosiddette comunità energetiche. In questo modo gli utenti diventano produttori attivi di energia, che può essere scambiata o anche venduta al gestore della rete nazionale. Le norme non consentono però la transazione diretta di energia fra i partecipanti. Tuttavia, le comunità energetiche in Italia esistono da parecchi anni, sfruttando soprattutto l’idroelettrico e, negli ultimi anni, anche il fotovoltaico.
- Seconda soluzione: l’intervento delle banche
Secondo la Bce, invece, saranno le banche centrali a doversi fare carico di stabilizzare i prezzi dell’energia. Un’impresa non da poco, visto che il mercato si è spesso dimostrato “ballerino”. Se da un lato l’impatto dei cambiamenti climatici sulla stabilità finanziaria è innegabile, dall’altro gli istituti si vedono costretti ad agire dopo l’impennata dei prezzi. Stando all’analisi di Schnabel, anche i governi dovranno fare la loro parte sostenendo famiglie e imprese.
- Terza soluzione: bilancio e industria
C’è infine chi sostiene che la greenflaction andrebbe principalmente gestita dalle politiche di bilancio e industriali. In primo luogo andrebbe spinto al massimo il processo di transizione ecologica. In seguito si dovrebbe intervenire su domanda e offerta, tramite investimenti pubblici e incentivi o anche con controlli dei prezzi. L’obiettivo è quello di evitare rendite ed extraprofitti che rischierebbero di far naufragare la transizione.