La finanza climatica “è un’assicurazione globale contro l’inflazione”. Parola di Simon Stiell, segretario esecutivo della Convenzione dell’Onu sul cambiamento climatico, aprendo la sessione della Cop29 di Baku dedicata ai capi di stato e di governo, il World Leaders Climate Action Summit. “I costi in aumento del clima dovrebbero essere il nemico pubblico numero 1”, ha aggiunto, specificando che “gli impatti del clima che peggiora gonfieranno l’inflazione come gli steroidi, a meno che tutti i Paesi non adottino un’azione climatica più coraggiosa”.
La finanza climatica al centro della Cop29
Ma che cosa si intende, dunque, con finanza climatica? Proprio questo, infatti, è il tema principale al centro dei negoziati della Cop29 di Baku, con le Nazioni Unite impegnate a discutere sullo sblocco dei trilioni di dollari necessari ai Paesi in via di sviluppo per affrontare la crisi climatica.
I costi della crisi climatica
“La crisi climatica è una crisi di costo della vita, perché i disastri climatici stanno alzando il costo delle case e del business” ha detto ancora Stiell. A suo avviso “lasciare che la questione languisca irrisolta nelle agende dei governi è una ricetta per il disastro“.
La crisi climatica come un “killer globale”
“Eravamo abituati a parlare dell’azione climatica come se riguardasse soprattutto la salvezza delle generazioni future – ha aggiunto il segretario dell’Unfccc -. Ma c’è stata una svolta epocale nella crisi climatica globale, perché la crisi sta diventando rapidamente un killer economico. Gli impatti del clima stanno tagliando fino al 5% del Pil in molti Paesi”.
Finanza climatica, “non è beneficenza ma un investimento”
La finanza climatica “non è beneficenza, è un investimento”, ha spiegato il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. “Agire per il clima non è facoltativo, è un imperativo. La Cop29 deve abbattere i muri della finanza per il clima” perché “abbiamo bisogno di un nuovo obiettivo finanziario che sia adeguato al momento”, ha aggiunto. Sono cinque gli “elementi essenziali per il successo”, secondo Guterres: “Un aumento significativo dei finanziamenti pubblici agevolati; una chiara indicazione di come questi fondi pubblici mobiliteranno i trilioni di dollari di cui i Paesi in via di sviluppo hanno bisogno; fonti innovative, in particolare imposte sul trasporto marittimo, sull’aviazione e sull’estrazione di combustibili fossili, basate sul principio del ‘chi inquina deve pagare’; maggiore accessibilità, trasparenza e responsabilità; aumentare la capacità di prestito per le banche multilaterali di sviluppo più grandi e coraggiose”.
Una definizione di finanza climatica? Difficoltà
Una definizione precisa di finanza climatica non è semplice da circoscrivere: per finanza climatica, infatti, si intende qualsiasi somma di denaro, pubblica o privata, spesa per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di uno sviluppo a basse emissioni. Una definizione tuttavia corretta può essere quella di flussi di denaro che dai Paesi ricchi finiscono al Sud globale per finanziare la transizione ecologica. Le Nazioni Unite, in realtà, indicano che con finanza climatica ci si riferisce principalmente alle difficoltà incontrate dai Paesi in via di sviluppo nell’ottenere i finanziamenti internazionali di cui hanno bisogno per realizzare una transizione verso un futuro green e per far fronte ai disastri legati al clima. Secondo la Climate Policy Initiative, il fabbisogno mondiale della “finanza climatica” viene stimato in 10.000 miliardi di dollari all’anno tra il 2030 e il 2050.
Quanti soldi ai Paesi in via di sviluppo?
Sul tavolo principale delle negoziazioni di Baku c’è proprio il rinnovo del fondo da 100 miliardi di dollari all’anno di aiuti ai Paesi vulnerabili, previsto dall’Accordo di Parigi e in scadenza nel 2025. E il primo problema, il primo scoglio, è decidere la cifra: un gruppo di esperti indipendenti di alto livello sulla finanza climatica (una commissione che dal 2021 assiste le Cop) calcola che al mondo servano 6.500 miliardi all’anno per la finanza climatica. Di questa somma, 1.300 miliardi all’anno devono andare ai Paesi in via di sviluppo (esclusa la Cina). Ma secondo molti, già i 100 miliardi di dollari all’anno sono un’impresa.
Finanziamenti e prestiti, servono garanzie
C’è poi un altro punto interrogativo: che cosa si intende per “finanziamenti”? I Paesi in via di sviluppo vorrebbero che fossero dei “grant”, cioè finanza pubblica a fondo perduto, o al massimo “finanza concessionale”, cioè prestiti a tassi agevolati. Fino ad ora nei 100 miliardi sono stati contati anche prestiti a tasso di mercato, che difficilmente si possono considerare aiuti. E poi occorre chiarire a cosa vanno destinati questi soldi: alla mitigazione delle emissioni (che interessa ai Paesi ricchi che vendono le tecnologie delle rinnovabili) o all’adattamento al clima cambiato (che interessa ai Paesi poveri che ne subiscono gli effetti disastrosi)? I Paesi industrializzati, oltre a chiedere garanzie su dove finiscono i loro soldi, vogliono meccanismi severi di selezione dei progetti e di controllo della loro attuazione.
Un impegno che risale al 1992
E’ stata, nel 1992, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), a elencare i Paesi tenuti a dare assistenza finanziaria al resto del mondo: nel 2009 Stati Uniti, Unione Europea, Giappone, Regno Unito, Canada, Svizzera, Turchia, Norvegia, Islanda, Nuova Zelanda e Australia si sono impegnati ad aumentare gli aiuti per il clima fino, appunto, alla citata cifra di 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2025. Ma non è stato raggiunto l’obiettivo fino al 2022, e lo scopo della Cop29, è far concordare ai firmatari dell’Accordo di Parigi le nuove cifre oltre il 2025.
Una sorta di risarcimento
Lo scopo dei negoziati, dunque, è non solo promettere ma capire come stanziare la cifra, e quale cifra in favore delle nazioni in via di sviluppo, accertato il fatto che moltissimi Paesi, fuori da considerazioni politiche, non abbiano le possibilità, gli strumenti e i soldi per investire su energia e infrastrutture green. I fondi stanziati sarebbero anche una sorta di risarcimento, almeno in parte, per le emissioni rilasciate negli ultimi decenni da un ristretto gruppo di Paesi industrializzati.
Il ruolo della Cina
E poi c’è una sorta di “questione cinese”: Pechino spinge per una finanza climatica ambiziosa e ricca ma senza dare il suo contributo economico. La Cina, infatti, dalla Convenzione Onu sui cambiamenti climatici è considerata come un Paese in via di sviluppo (motivo per cui non farebbe parte dei Paesi tenuti a versare soldi per gli aiuti). In molti però (con in testa Usa ed Europa) spingono per cambiare le cose, visto lo status di potenza mondiale della Cina e soprattutto visto il suo ruolo di primissimo piano nella emissioni di CO2.