Processo tributario: gli errori da non commettere

Nel processo penale e in quello tributario le prove hanno un valore differente. Con il fisco non si può essere assolti per una loro insufficienza

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Pierpaolo Molinengo

Giornalista economico-finanziario

Giornalista specializzato in fisco, tasse ed economia. Muove i primi passi nel mondo immobiliare, nel occupandosi di norme e tributi, per poi appassionarsi di fisco, diritto, economia e finanza.

Essere assolti in sede penale quanto vale in una diatriba aperta con l’Agenzia delle Entrate? Completamente niente, se il giudicato di proscioglimento è una conseguenza dell’insufficienza della prova costituita dalle dichiarazioni di una parte.

Ma cerchiamo di capire meglio e di comprendere cosa sia accaduto. Nel corso di un processo tributario, l’eventuale assoluzione avvenuta in sede penale dal reato di dichiarazione fraudolenta, non assume valenza probatoria – non costituisce quindi una prova -, anche quando l’accusa mossa abbia a che fare con l’uso di fatture o qualsiasi altro documento non esistente.

Questa presa di posizione emerge dalla decisione n. 702 del 5 settembre 2023, attraverso la quale la Corte di Giustizia tributaria di secondo grado delle Marche ha respinto un appello proposto da una società.

L’assoluzione nel processo penale

Ma partiamo dall’inizio e cerchiamo di comprendere cosa sia accaduto. Nel caso preso in esame, l’amministratore delegato di una società viene assolto nel processo penale dal reato ascrittogli, per un semplice e banale motivo: insufficienza di prove. I giudici avevano emesso questa sentenza in quanto le dichiarazioni accusatorie nei confronti del soggetto – che erano state rese ai sensi dell’articolo 192 del Codice di Procedura Penale – non avevano trovato riscontro in sede dibattimentale. Venivano, quindi, ritenute insufficienti per una condanna penale.

Per i giudici della giustizia tributaria, però, le stesse dichiarazioni accusatorie, all’interno di un processo tributario, possono assumere una diversa valenza probatoria, soprattutto se vengono unite ad altri indizi. E, soprattutto, possono diventare una prova sufficiente per una condanna fiscale nei confronti del contribuente.

Il caso specifico

Nel caso preso in esame l’Agenzia delle Entrate aveva emesso nei confronti di una società e del suo legale rappresentante un avviso di accertamento. Gli uffici tributari contestavano alla società delle ritenute d’acconto non versate e delle deduzioni fiscali indebite, che erano legate a dei costi fittizi, documentati attraverso alcune fatture ed altri documenti emessi per delle operazioni inesistenti.

La società aveva provveduto ad impugnare l’atto impositivo davanti alla Commissione Tributaria di Primo Grado di Ancona: il ricorso, però, veniva respinto dai giudici marchigiani, i quali ritenevano corretto l’operato dell’Agenzia delle Entrate.

La società, a questo punto, impugnava in secondo grado la decisione dei giudici, basandosi sulla considerazione che era intervenuta, nel frattempo, una sentenza penale di assoluzione a favore del legale rappresentante dell’impresa. I giudici avevano assolto l’imputato per insufficienza di prove.

La difesa del contribuente

Nella sua difesa il contribuente asseriva che la sentenza emessa dai giudici tributari di primo grado di Ancona era condizionata da un vizio logico giuridico: si basava, infatti, su un semplice richiamo per relationem ad altre sentenze della Commissione Tributaria Provinciale, attraverso le quali erano stati confermati degli avvisi di accertamento relativi ad alcuni ricavi non dichiarati dalla società appellante e che avevano preceduto cronologicamente la sentenza di assoluzione del legale rappresentante arrivata attraverso il processo penale.

La società riteneva che non fosse possibile non prendere in considerazione la sentenza di assoluzione arrivata in sede penale che avrebbe dimostrato l’inesistenza degli addebiti avanzati dall’amministrazione finanziaria attraverso l’atto accertativo.

La risposta dell’Agenzia delle entrate

Gli uffici tributari costituendosi nel giudizio di secondo grado hanno spiegato che il legale rappresentante aveva reso delle dichiarazioni attraverso le quali aveva ammesso che le fatture emesse da alcune società erano relative ad alcune operazioni inesistenti.

Le suddette dichiarazioni non erano state contestate dall’appellante. Ma soprattutto devono essere considerate affidabili, perché risultavano essere precise e sufficienti per ritenere dimostrata – almeno nel corso del processo tributario – l’ipotesi di evasione fiscale.

Le dichiarazioni, inoltre, erano state riscontrate direttamente dalla Polizia giudiziaria, che era riuscita ad accertare l’effettiva inesistenza delle due società oggetto delle affermazioni pronunciate dal legale rappresentante.

A riscontro della posizione presa dall’Agenzia delle Entrate c’era, inoltre, l’esame della contabilità e le indagini bancarie nei confronti delle società coinvolte. Veniva, infatti, riscontrato il metodico prelievo di denaro nel momento in veniva effettuato il pagamento delle fatture da parte dei clienti. Veniva, in questo modo, confermato il funzionamento dell’evasione tributaria.

La decisione dell’appello

I giudici tributari delle Marche, che hanno dovuto pronunciarsi definitivamente sulla questione, hanno respinto l’appello del contribuente, perché ritenuto infondato.

Nel caso preso in esame il processo verbale di constatazione – nel quale veniva appresa la natura di società fittizie delle imprese coinvolte nelle operazioni – è stato effettuato correttamente. Ma, soprattutto, non è stato contestato direttamente dal contribuente. Proprio su questo pilastro si va a fondare l’atto impositivo

essendo del tutto evidente che tali società, se non avevano neppure una consistenza spaziale e materiale, non potevano di certo avere svolto le prestazioni contrattuali cui afferiscono le fatture che hanno generato i ricavi sottratti a tassazione.

I giudici tributari hanno sottolineato come non possa assumere alcuna valenza probatoria all’interno di un processo tributario, l’eventuale assoluzione che sia avvenuta nel corso di un processo penale. Soprattutto quando questa decisione è stata presa per una mera insufficienza della prova costituita dalle dichiarazioni di una parte. Queste, invece, possono essere valorizzate solo se riscontrate in un processo penale, ma in uno tributario possono essere utilizzate insieme ad altri indizi e possono costituire una prova sufficiente per emettere un atto accertativo.

L’unica strada che può percorre l’azienda, a questo punto, è contestare efficacemente le accuse, allegando delle prove concrete. Questo, però, non è avvenuto.

In sintesi

Venire assolti in un processo penale non comporta l’assoluzione d’ufficio anche in un processo tributario, soprattutto quando i giudici hanno preso la loro decisione per mancanza di prove.

I fatti nel corso di un procedimento tributario vengono appurati in maniera diversa rispetto al penale. Per il fisco le dichiarazioni rese da un contribuente sono sufficienti se supportate da altre prove. Nel penale sono richiesti dei riscontri maggiori. Questo porta a prendere delle decisioni differenti.