Caso “Mia Moglie”, la sottile linea rossa tra consenso e reato

La rete non è un rifugio d’impunità, diffondere immagini intime senza consenso è reato. Cosa si rischia? Chi risponde? Quando serve la querela?

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Giorgia Dumitrascu

Avvocato civilista

Avvocato civilista con passione per la scrittura, rende il diritto accessibile attraverso pubblicazioni mirate e consulenze chiare e personalizzate.

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Il gruppo “Mia moglie” nasce su Facebook come spazio virtuale in cui migliaia di utenti condividevano fotografie intime delle proprie partner spesso senza autorizzazione. Nel giro di poche settimane gli iscritti hanno superato le 32.000 unità, trasformando la pagina in un archivio di materiale privato diffuso senza consenso.

La Polizia Postale ha ricevuto circa 2.800 segnalazioni solo per quel gruppo, a cui se ne aggiungono altre 300 su community simili. Già le prime segnalazioni hanno condotto Meta a chiudere il gruppo, ma la community non si è dispersa: si è ricomposta su Telegram e su altre piattaforme di messaggistica, dove il controllo è molto più difficile e le segnalazioni non garantiscono una rimozione immediata.

Il fenomeno non può essere liquidato come un episodio di devianza digitale. La diffusione di immagini intime senza consenso integra infatti condotte penalmente rilevanti. Inoltre, la questione tocca anche principi di copertura costituzionale di dignità (art. 2 Cost.) e riservatezza (art. 15 Cost.), con possibili riflessi anche sul piano civile e sulla responsabilità per trattamento illecito di dati personali.

La linea rossa tra lecito e reato, i quattro consensi da distinguere

Quando si parla di rapporti sessuali e diffusione di immagini, la parola “consenso” assume connotazioni diverse. Il diritto li distingue con precisione, perché ogni piano giuridico ha regole proprie e violarle comporta conseguenze diverse.

Consenso sessuale

L’art. 609-bis c.p. punisce qualsiasi atto sessuale compiuto senza il consenso della persona.”

La giurisprudenza ha chiarito che vale il consenso affermativo, serve una volontà chiara e libera, che non può mai essere presunta dal silenzio o dalla mera passività. Inoltre, il consenso è revocabile in ogni momento, se la persona interrompe l’assenso, il proseguimento del rapporto integra il reato di violenza sessuale (Cass. pen. sent. n. 19599/2023; Cass. pen. sent. n. 42821/2024).

Consenso all’immagine

Pubblicare o diffondere la foto di una persona senza autorizzazione viola l’art. 10 c.c. e gli artt. 96-97 della legge sul diritto d’autore. Non serve che si tratti di un personaggio pubblico, ogni individuo ha il diritto di controllare l’uso della propria immagine. L’illecito è ancora più evidente se l’uso ha carattere lesivo o umiliante, come avviene nei casi di esposizione a contenuti a sfondo sessuale.

Consenso privacy

Il trattamento di dati personali richiede una base giuridica. In mancanza, si configura un illecito che può generare responsabilità sia civile che penale. L’art. 82 del GDPR riconosce alla vittima il diritto al risarcimento del danno anche non patrimoniale, mentre gli artt. 167 e 167-bis del Codice Privacy prevedono invece sanzioni penali, con aggravanti quando i dati diffusi riguardano la vita sessuale o la salute.

Consenso di piattaforma

Accettare i termini di servizio di un social network non equivale a concedere un consenso giuridicamente valido per la diffusione delle proprie immagini. I ToS regolano solo il rapporto con la piattaforma, non possono trasformare un atto vietato dal codice penale o civile in un comportamento lecito.

“Mia moglie non voleva”: matrimonio e rapporti intimi

Il matrimonio non conferisce alcun diritto automatico ai rapporti sessuali. Lo stupro coniugale è un reato a tutti gli effetti.”

Anche il comportamento di chi approfitta di uno stato di incoscienza è stato qualificato come violenza sessuale. In questo senso, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la responsabilità penale del marito che aveva avuto rapporti con la moglie addormentata (Cass. pen. sent. n. 43818/2023).

Storicamente, il matrimonio era considerato una sorta di “ombrello” che attenuava la rilevanza penale delle condotte sessuali forzate. Oggi tale visione è superata: la giurisprudenza ha chiarito che:

La libertà sessuale è inviolabile e non conosce eccezioni in base allo status familiare.”

Pertanto, non esiste un dovere coniugale a subire rapporti contro la propria volontà. Ogni atto privo di consenso affermativo, anche dentro il matrimonio, costituisce violenza sessuale e comportata tutte le conseguenze penali previste dalla legge.

La segnalazione non basta, quando serve la querela?

Molte delle vittime del gruppo “Mia moglie” hanno inviato segnalazioni ai social network o alla Polizia Postale. È un primo passo, utile per documentare il fatto, ma non è sufficiente per avviare un procedimento penale. Perché scattino le indagini serve la querela di parte, da presentare entro i termini stabiliti dalla legge.

L’art. 612-ter c.p. punisce chi diffonde, cede o inoltra immagini sessualmente esplicite destinate a rimanere private.”

Non conta solo chi pubblica per primo, ma anche chi contribuisce alla circolazione del contenuto. Tuttavia, per l’inoltro o la ripubblicazione la norma richiede espressamente che la condotta sia compiuta al fine di recare nocumento alla persona ritratta, non ogni condivisione automatica integra il reato, ma solo quella animata da un intento lesivo.

La regola generale è la procedibilità a querela, la vittima ha 6 mesi di tempo dalla conoscenza del fatto per sporgere querela, trascorsi i quali il reato non è più perseguibile. Invece, si procede d’ufficio solo nei casi previsti dal quarto comma dell’art. 612 ter c.p., quando la vittima si trova in condizioni di inferiorità fisica o psichica o in stato di gravidanza oppure se il fatto è connesso con altro delitto per il quale la legge prevede la procedibilità d’ufficio.

Cosa rischia chi viola il consenso?

L’art. 609 bis c.p. stabilisce che:

La violenza sessuale è punita con la reclusione da 6 a 12 anni.”

Invece, per la diffusione di immagini intime senza consenso, l’art. 612 ter c.p. prevede la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.

Le pene aumentano se ricorrono aggravanti previste dalla legge, se l’autore è il coniuge, anche separato o divorziato, o un soggetto legato da relazione affettiva; quando la diffusione avviene tramite strumenti informatici o telematici; e, in misura da un terzo alla metà, se la vittima si trova in condizioni di inferiorità fisica o psichica o in stato di gravidanza.

Oltre alla sanzione penale, la persona offesa ha diritto a una serie di strumenti di tutela, può chiedere misure cautelari a protezione della propria sicurezza, ricorrere al giudice civile con un ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per ottenere la rimozione dei contenuti o l’oscuramento dei profili che li diffondono.

Chi risponde? Chi pubblica, chi inoltra, chi ospita

Il caso “Mia moglie” ha messo in luce la varietà di soggetti coinvolti e la pluralità di responsabilità possibili. Infatti, non conta solo chi crea il contenuto illecito, ma anche chi lo diffonde, lo rilancia o lo ospita.

In primo luogo rilevano autori e “forwarder”. L’art. 612-ter c.p. punisce non solo chi pubblica per primo un contenuto sessualmente esplicito senza consenso, ma anche chi lo inoltra o lo ripubblica. Tuttavia, per l’inoltro la norma richiede che la condotta sia compiuta al fine di recare nocumento alla persona ritratta, non ogni condivisione passiva integra in automatico il reato. In presenza di questo elemento soggettivo, chi contribuisce ad estendere la circolazione materiale può rispondere anche a titolo di concorso nel reato ai sensi dell’art. 110 c.p., quando la sua azione rafforza o agevola quella principale. Non è quindi corretto pensare che inoltrare un file ricevuto sia un gesto neutro, la responsabilità penale può estendersi a ogni anello della catena.

Vengono poi presi in considerazione amministratori e moderatori, gestire un gruppo online non significa in automatico essere responsabili di ogni contenuto che vi circola. La responsabilità in concorso sussiste se:

L’amministratore o il moderatore approva sistematicamente contenuti illeciti, agevola l’organizzazione della community o omette di intervenire pur avendo il controllo effettivo.”

Non ultimo occorre considerare le piattaforme. Anche i grandi operatori sono chiamati a rispondere. Il Digital Services Act (Reg. UE 2022/2065), in vigore dal 17 febbraio 2024 per tutti i provider, impone obblighi stringenti: procedure rapide di segnalazione e rimozione dei contenuti illegali (notice and action), valutazioni periodiche dei rischi sistemici e trasparenza sugli algoritmi. In Italia, il ruolo di Digital Services Coordinator è stato attribuito ad AGCOM, che può richiedere dati, imporre ordini di rimozione e sanzionare le piattaforme inadempienti.

La responsabilità quindi non si ferma al singolo utente che pubblica o inoltra. La catena arriva fino ai gestori dei gruppi e alle stesse piattaforme.

Non solo “Mia moglie”: deepfake e siti

Il caso “Mia moglie” non è isolato. Negli ultimi mesi hanno fatto scalpore i siti e i canali che diffondevano deepfake pornografici di personaggi pubblici, realizzati con software di intelligenza artificiale capaci di sovrapporre volti reali a corpi nudi. In questi casi, non si trattava di immagini private rubate, ma di contenuti manipolati che simulano rapporti sessuali mai avvenuti.

Sul piano giuridico, qui il perimetro del 612 ter c.p. non sempre è sufficiente. La norma richiede che si tratti di immagini “destinate a rimanere private”, se il contenuto è interamente artificiale, la fattispecie rischia di non applicarsi. Ciò non significa impunità. In questi casi possono configurarsi altri illeciti, la violazione della privacy per trattamento illecito di dati biometrici (come il volto, qualificato come dato personale dal GDPR), la diffamazione aggravata se il deepfake danneggia la reputazione, o addirittura lo stalking se la vittima subisce reiterate condotte persecutorie.