In caso di contratto a termine in scadenza, il rinnovo non è un diritto automatico. Diverso è il discorso sul licenziamento, l’art. 54 del D.lgs. n. 151/2001 stabilisce che:
“La lavoratrice non può essere licenziata dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.”
Le uniche eccezioni ammesse riguardano i casi tassativi previsti dalla norma: colpa grave che giustifichi il licenziamento per giusta causa, cessazione dell’attività dell’azienda, ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta, oppure scadenza del contratto a termine.
Dunque, la scadenza naturale del contratto è un’ipotesi legittima. Infatti, non esiste in base alla legge vigente, un obbligo del datore di rinnovare o prorogare il contratto solo perché la dipendente è incinta. Ciò non significa, però, che il datore abbia mano libera: se la mancata proroga è motivata, anche solo in parte, dallo stato di gravidanza, la condotta può integrare discriminazione diretta vietata dal Codice delle pari opportunità (D. lgs. n. 198/2006) e dalle Direttive europee in materia di parità di trattamento.
Per questo la giurisprudenza ha più volte sottolineato la differenza tra mancato rinnovo legittimo (per esigenze organizzative documentabili, riduzione del personale, fine progetto) e mancato rinnovo discriminatorio, quando la scelta è legata alla maternità. Nel secondo caso, la lavoratrice può agire in giudizio per ottenere tutela.
Indice
Caso Amabile: cosa è successo?
Il caso che ha acceso il dibattito nasce dal brand di gioielli Amabile, fondato dalla creator Martina Strazzer. L’azienda aveva assunto una lavoratrice con contratto a tempo determinato, scelta, questa, raccontata sui social come gesto inclusivo: la dipendente era incinta al momento dell’assunzione e la vicenda era stata presentata come segno di attenzione verso le donne e la maternità.
Alla scadenza del contratto, però, il rapporto non è stato rinnovato. In un comunicato diffuso sui social, Amabile ha parlato di “criticità emerse” all’interno del rapporto di lavoro, senza entrare nei dettagli. Ma proprio tale motivazione generica ha alimentato dubbi e polemiche. Sui social i commenti accusano il brand di incoerenza rispetto alla narrazione valoriale proposta in passato.
Al di là del clamore mediatico, la legge non impone l’obbligo di rinnovo di un contratto a termine, ma se la mancata proroga è determinata, anche in parte dalla gravidanza della lavoratrice, la scelta integra una condotta discriminatoria.
Rischio reputazionale per il brand
Il caso Amabile non si gioca solo sul terreno giuridico, ma anche su quello della reputazione. Quando un’azienda costruisce parte della propria identità sullo storytelling inclusivo, come l’assunzione di una lavoratrice già in gravidanza celebrata sui social, crea aspettative precise nei clienti. Se l’esperienza reale si discosta da quel racconto, il vuoto di coerenza si traduce in perdita di fiducia. Lo dimostrano le reazioni virali sui social, con centinaia di commenti critici anche con un calo di follower e condivisioni negative.
Quando il mancato rinnovo è discriminazione di genere?
Come anticipato, se il motivo che ha condotto il datore di lavoro a non prorogare un contratto a termine è legato alla gravidanza, ci troviamo davanti a una discriminazione di genere, vietata dall’ordinamento italiano ed europeo.
L’art. 25 del Codice delle pari opportunità in combinato disposto con l’art 3 Cost. vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso “con riferimento all’accesso al lavoro, alla formazione e all’avanzamento professionale, nonché alle condizioni di lavoro e retributive”. Lo strumento di tutela prevede che la lavoratrice possa ricorrere al giudice per far cessare la condotta discriminatoria e ottenere il risarcimento del danno (art. 38 D.lgs. n. 198/2006).
Sul piano probatorio, la legge alleggerisce l’onere della lavoratrice. Infatti, l’art. 40 del D.lgs. n. 198/2006 in linea con la Direttiva UE 2006/54/CE stabilisce che:
“Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, anche a carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione.”
In altre parole, non serve dimostrare in modo diretto che il datore non ha rinnovato il contratto “perché incinta”, è sufficiente fornire indizi precisi e concordanti. Ad esempio, la temporalità della mancata proroga subito successiva alla maternità; la comparazione con altri colleghi a termine che invece sono stati rinnovati; la presenza di valutazioni positive o performance documentate che rendono ingiustificata la scelta. In questo senso, la Cassazione ha riconosciuto che il mancato rinnovo può essere considerato discriminatorio se vi è una coincidenza temporale con lo stato di gravidanza e mancano ragioni oggettive (Cass. sent. n. 5476/2021).
Vittimizzazione: ci sono tutele contro le ritorsioni?
Segnalare una discriminazione non può trasformarsi in un boomerang. La legge tutela la lavoratrice che denuncia o agisce in giudizio. L’art. 26, co. 3-bis D.lgs. 198/2006 vieta ogni misura ritorsiva: non sono validi licenziamenti, demansionamenti, trasferimenti o provvedimenti disciplinari collegati alla segnalazione. Analogamente, l’art. 41-bis sancisce la nullità di qualsiasi comportamento “pregiudizievole” in reazione all’attività diretta a far valere la parità.
Se dopo una diffida o un ricorso la dipendente subisce conseguenze negative, queste sono annullabili davanti al giudice. In più, nelle aziende con almeno 50 dipendenti scatta l’obbligo del canale di whistleblowing, che deve garantire riservatezza, tempi certi di riscontro e protezione dell’identità della segnalante.
In caso di inerzia o pericolo imminente, la legge ammette anche la divulgazione pubblica. Pertanto, non è un atto arbitrario raccontare la vicenda all’esterno.
Come accedere ai dati aziendali
Se si sospetta una discriminazione nel mancato rinnovo, un problema è accedere ai documenti che la dimostrano (valutazioni, note HR, criteri di rinnovo, comparatori interni). In questi casi il GDPR costituisce uno strumento probatorio.
L’art. 15 GDPR prevede che:
“L’interessata ha diritto a ottenere dal datore di lavoro la conferma del trattamento e copia dei dati personali che la riguardano: finalità, categorie, destinatari, periodo di conservazione, documenti e comunicazioni che contengono dati su di lei.”
In particolare, sono dati personali anche:
- schede di valutazione;
- email e note interne che menzionano la lavoratrice o la sua posizione;
- criteri applicati ai rinnovi nella misura in cui incidono sulla posizione della richiedente;
- estratti dei formulari HR (proposte di proroga/cessazione, motivazioni).
Il datore risponde entro 30 giorni, prorogabili di due mesi se l’istanza è complessa, con obbligo di motivare la proroga. La copia è gratuita salvo richieste manifestamente infondate o eccessive. Se i documenti contengono dati di terzi, il datore può oscurare le parti non necessarie, in ogni caso deve fornire alla lavoratrice i dati che la riguardano.