Assegno di mantenimento, in un caso può essere revocato al figlio: la sentenza

Il figlio che non si impegna nel cercare lavoro può perdere il mantenimento. Il caso della tirocinante e la decisione della Cassazione che riflette un costante orientamento

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 20 Ottobre 2024 19:00

Quando viene meno il diritto all’assegno di mantenimento? Più volte la Corte di Cassazione ha contribuito a fare chiarezza sui confini entro i quali è possibile continuare a percepire l’importo mensile e – proprio quest’anno – ha chiarito il caso del figlio trentenne che si trova senza un lavoro e relativo reddito.

Con l’ordinanza n. 2259/2024 la Corte ha infatti ribadito qual è l’orientamento costante della giurisprudenza, sul tema della durata dell’assegno di mantenimento che il genitore divorziato e non collocatario – vale a dire che non vive sotto lo stesso tetto col figlio – deve versare a quest’ultimo.

In particolare può essere negato il mantenimento a chi, ormai trentenne, è laureato ma disoccupato oppure tirocinante o stagista? Vediamo insieme qual è la risposta della Suprema Corte.

Assegno di mantenimento figli, stop dopo i 30 anni

In generale, il mantenimento costituisce un sostegno finanziario che un coniuge tipicamente dà all’altro dopo un divorzio o una separazione consensuale. Il pagamento è periodico, di solito a cadenza mensile, e grazie ad esso è possibile contribuire alle spese quotidiane dell’ex (salvo il caso del part time) e della prole.

Il punto qui è capire quando il diritto all’importo continua a permanere in capo ai figli. Secondo l’ordinanza n. 2259 della Corte di Cassazione, criterio chiave per fondare il diritto al mantenimento è l’età del figlio o figlia. La giurisprudenza sostiene infatti che l’obbligo di assistenza alla prole non può estendersi oltre ragionevoli limiti di tempo, pur considerando le oggettive difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro odierno.

Nel testo del provvedimento c’è la risposta alla domanda che ci siamo posti in apertura. Anche se il figlio trentenne è laureato e disoccupato, il giudice può stoppare l’assegno di mantenimento perché a quell’età – e a maggior ragione dopo i 30 anni – il giovane, avrebbe dovuto riuscire a trovare un’occupazione, e quindi un reddito, salva la prova di aver fatto tutto il possibile per lavorare. Vedremo tra poco un po’ più da vicino questo aspetto.

Obbligo di revoca del giudice

Il genitore divorziato e obbligato a pagare l’assegno di mantenimento non può tuttavia scegliere spontaneamente di non versarlo più. Sarà solo il giudice a poter disporre la revoca del suo stesso provvedimento. Ecco perché il genitore che lamenti l’inerzia o lo scarso impegno del figlio nel cercare un’occupazione, se intende interrompere il versamento degli alimenti dovrà fare un ricorso in tribunale.

La linea della giurisprudenza della Cassazione è quella di riconoscere lo stop all’assegno, a discapito del giovane che non coglie le offerte di lavoro che gli arrivano – seppur non in linea con le sue aspettative e interessi. In altre parole, l’obiettivo non è trovare il lavoro dei sogni, ma un’occupazione che generi un reddito e consenta finalmente l’autosufficienza e l’indipendenza finanziaria.

Nel caso da cui l’ordinanza di cui sopra, una ragazza di oltre trent’anni, che aveva conseguito una laurea in legge e stava studiando per dare l’esame da avvocato, si è vista così negare l’assegno di mantenimento da parte della Cassazione. I magistrati hanno applicato il principio secondo cui ogni adulto deve essere responsabile di se stesso.

Principio di auto-responsabilità e onere della prova

Al centro della decisione che qui interessa, c’è la necessità di valutare se il figlio maggiorenne effettivamente palesi una reale incapacità di provvedere autonomamente al proprio sostentamento. Per capire se va tolto l’assegno, è perciò fondamentale esaminare il grado di impegno del figlio nel perseguire un’adeguata preparazione professionale o nella ricerca di un’occupazione, bilanciando tale aspetto con la responsabilizzazione individuale richiesta con la maggiore età.

Nel caso da cui l’ordinanza n. 2259, il giudice aveva ritenuto che – pur essendo l’accesso alla professione lungo e complicato – ciò non esonera il figlio maggiorenne, e con una laurea, dall’obbligo di procacciarsi soluzioni occupazionali al fine di ottenere un proprio reddito. In altre parole, il mero fatto di frequentare il tirocinio per avvocato non è condizione sufficiente a provare il diritto a continuare a percepire l’assegno di mantenimento.

Il figlio o la figlia, indipendentemente dallo stage o tirocinio, ai trent’anni deve aver trovato un lavoro, altrimenti sarà responsabile della sua disoccupazione e di non aver fatto abbastanza per trovarla. Tuttavia potrà provare in giudizio che la mancanza di lavoro è dipesa da ragioni indipendenti dalla sua volontà o da cause di forza maggiore. Ma chiaramente, quanto più l’età sarà maggiore, tanto più sarà difficile riuscire a dimostrare l’assenza di responsabilità.

Il mantenimento si può perdere anche prima dei 30 anni

Non solo. La giurisprudenza ha chiarito che il mantenimento si può in realtà perdere anche prima dei trent’anni, se il figlio o la figlia non prova di aver realizzato con profitto un percorso di studio (è il tipico caso del figlio universitario che non dà esami o è fuori corso da molti anni), o non dimostra di cercare un lavoro con dedizione quotidiana (ad es. partecipando a concorsi, inviando efficaci CV alle aziende, facendo colloqui individuali o di gruppo ecc.).

In altre parole, per i figli neomaggiorenni che proseguono il loro percorso educativo o formativo, il mero fatto di essere impegnati in studi avanzati costituisce una valida motivazione per avere ancora l’assegno di mantenimento. Ma per gli adulti che non sono più in un percorso di studi o che – come nel caso da cui l’ordinanza – sono in procinto di diventare avvocati, la dimostrazione di circostanze che impediscono l’indipendenza economica impone una verifica assai rigorosa, in corrispondenza con il principio di responsabilità personale.

Ecco perché nell’ordinanza si leggono queste parole:

per il “figlio adulto”, in ragione del principio dell’autoresponsabilità, sarà particolarmente rigorosa la prova a suo carico delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa.

Che cosa cambia

Con l’ordinanza n. 2259 del 2024 la Cassazione ha ribadito un orientamento che può di fatto cambiare la situazione economica del beneficiario dell’assegno, ossia il figlio o la figlia. Infatti più passa il tempo e più lo stato di disoccupazione può essere ricondotto all’inerzia del giovane. Quest’ultimo sarà tenuto a cogliere le offerte di lavoro che gli giungono, anche se non in linea con le sue aspirazioni o motivazioni. Mentre il semplice fatto di frequentare il tirocinio legale non è condizione per fondare il diritto ad intascare ancora l’assegno di mantenimento.

In altre parole, per la Cassazione, il figlio deve sapersi accontentare per rendersi economicamente autosufficiente, rispettando così il citato principio di auto-responsabilità, per cui non si può sempre dipendere dai genitori dal lato economico.

Concludendo, le situazioni cambiano in modo evidente in base all’età del beneficiario. Se questi è appena divenuto maggiorenne e prosegue i suoi studi, potrà verosimilmente giovarsi ancora del mantenimento. Ma se è adulto, e quindi con trent’anni o più, provare che ci sono motivi validi – e indipendenti dalla sua volontà – che gli impediscono di lavorare, può essere arduo se non impossibile.