PNRR, rischi pesantissimi per l’Italia: tutti gli scenari

Nell’ipotesi in cui il nostro Paese rinunciasse alla quota di fondi concessi a prestito, le ripercussioni sulla nostra economia potrebbero essere devastanti

Pubblicato: 23 Aprile 2023 17:00

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Federico Casanova

Giornalista politico-economico

Giornalista professionista specializzato in tematiche politiche, economiche e di cronaca giudiziaria. Organizza eventi, presentazioni e rassegne di incontri in tutta Italia.

Sin dal primo giorno in cui si è insediata a Palazzo Chigi, la premier Giorgia Meloni ha messo tra le prime voci della sua agenda la spinosa questione che riguarda la cabina di regia del PNRR. Già durante la campagna elettorale che l’ha portata a diventare la prima presidente del Consiglio donna nella storia del nostro Paese, la ragazza cresciuta alla Garbatella sapeva che si sarebbe ritrovata fra le mani uno dei dossier cruciali per la tenuta economica e sociale del nostro Paese, quantomeno nel futuro a breve termine.

E così la leader di Fratelli d’Italia ha pensato di affrontare l’argomento prendendolo di petto, senza indugi, mostrandosi determinata e senza alcuna volontà di eludere i molti ostacoli presenti sul suo cammino. Un atteggiamento divenuto palese già dopo poche settimane di lavoro, quando ha annunciato la volontà di cambiare il gruppo di esperti che si sarebbe occupato dei fondi europei. Basta con le deleghe spartite tra i vari ministeri: d’ora in avanti tutto ciò che riguarda il Piano nazionale di ripresa e resilienza verrà gestito direttamente dal capo dell’esecutivo e dal suo uomo più fidato, Raffaele Fitto.

PNRR, Meloni accentra le deleghe: cosa cambia a Palazzo Chigi

Proprio nelle ultime ore il cambio di prospettiva è giunto nella sua fase di realizzazione. Dopo un precedente voto favorevole già incassato al Senato, nel pomeriggio di giovedì 20 aprile anche la Camera ha dato il via libera al cosiddetto decreto PNRR: sono stati 196 i deputati che hanno votato a favore, con 147 contrari e 5 astenuti. Messa nero su bianco in maniera ufficiale, la centralizzazione di potere presso la presidenza del Consiglio dovrà servire a migliorare e velocizzare la realizzazione dei moltissimi interventi che riportano la scadenza del 2026.

Lo stesso Raffaele Fitto – che nel governo di centrodestra ricopre proprio il ruolo di ministro degli affari europei, delle politiche di coesione e del PNRR – ha già specificato che molti dei cantieri che devono essere conclusi nei prossimi 3 anni avranno bisogno di una proroga almeno al 2029, visti i ritardi e le difficoltà nella messa a terra delle risorse, disciplina di cui l’Italia è da sempre campionessa, purtroppo.

Assieme ai suoi più stretti collaboratori, l’ex presidente della regione Puglia andrà dunque a Bruxelles per concordare lo slittamento in avanti di alcune opere particolarmente complicate, ma sul tavolo della discussione finirà anche l’ipotesi di rivedere l’impianto generale dell’accordo firmato a suo tempo dall’allora premier Giuseppe Conte.

Quanti soldi perderebbe l’Italia se rinunciasse a parte del PNRR

È stata la stessa Lega, per voce del suo capogruppo parlamentare Riccardo Molinari, a ventilare la possibilità di “rinunciare a una parte dei prestiti”. Il riferimento è alla quota di 122,5 miliardi di euro che il nostro Paese riceverà dall’Unione europea e che andranno ad ingrossare ulteriormente il nostro gigantesco debito pubblico. L’idea del Carroccio non riguarda dunque i 68,9 miliardi di euro che l’Italia riceverà a fondo perduto (su un totale di circa 190 miliardi di euro), bensì quelli che prima o poi andranno comunque restituiti.

Lo scenario che ne deriverebbe sarebbe però molto complicato da gestire. A questo proposito, i tecnici del ministero dell’Economia fanno notare come le condizioni agevolate a cui ci vengono concessi i soldi a debito del PNRR generano interessi per soli 2,5 miliardi di euro l’anno. Se invece decidessimo di rinunciarvi, per ottenere la stessa cifra nei prossimi anni l’Italia pagherebbe un valore di interessi pari a 2,7 miliardi di euro annui: 200 milioni di euro ogni dodici mesi che – accumulati nel tempo – porterebbero il nostro Paese a spendere di più per ricevere la stessa cifra di oggi.