Pausa bagno, caffè o sigaretta negata? L’azienda deve pagarti i danni

La Cassazione conferma, se il datore di lavoro nega sistematicamente le pause, il dipendente può ottenere un risarcimento anche senza prova diretta. La decisione 20249/2025

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Claudio Garau

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Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Oltre alla retribuzione, al versamento dei contributi, alle ferie o ad alcune indennità, i lavoratori dipendenti hanno diritto alla pausa nella giornata lavorativa. Il fondamento è all’art. 8 del d. lgs. 66/2003, che stabilisce che – quando l’orario di lavoro giornaliero supera le sei ore – il dipendente ha diritto a una interruzione di durata non inferiore a dieci minuti. In questo breve lasso di tempo, sarà possibile andare in bagno, bere un caffè, fumare una sigaretta (in appositi spazi) o comunque svolgere attività di breve svago.

Ecco perché, se il datore vìola questa regola e – soprattutto – lo fa sistematicamente nel corso del tempo, si esporrà al risarcimento danni alla salute nei confronti dei dipendenti, a cui la pausa è stata negata. Vediamo che cosa ha stabilito, in proposito, la sentenza n. 20249 della Cassazione e qual è la sua portata generale.

Il caso concreto, le pause negate e l’esito dei primi due gradi di giudizio

La decisione della Corte, che qui interessa, ha origine da una disputa che vedeva opposti più dipendenti all’azienda regionale presso cui erano in servizio. In primo grado, i dipendenti videro affermato e ribadito – a loro favore – il diritto alla pausa di almeno dieci minuti, ma senza il riconoscimento di un danno da usura psicofisica e del conseguente risarcimento.

Al fine di ricevere una tutela piena, i lavoratori sono andati in appello e, qui, il giudice di secondo grado ha accolto la loro richiesta, condannando l’azienda regionale al risarcimento. In particolare, dai fatti di causa era emerso che la violazione si era protratta per ben dieci anni e, perciò, si era caratterizzata per un’intensità superiore a quanto comunemente accettabile. Ecco perché, accertate le pause negate o mancate, la Corte territoriale era giunta, in via presuntiva, a ritenere dimostrato un significativo e risarcibile danno alla salute o da usura psicofisica.

Contro questa decisione l’azienda regionale datrice fece ricorso per Cassazione, lamentando che i dipendenti non avessero dato la precisa, circostanziata e diretta prova medica delle conseguenze patite per le mancate pause sul lavoro.

La decisione della Cassazione e il meccanismo della presunzione

Con la sentenza n. 20249, la Corte conferma la correttezza della precedente sentenza e chiarisce che – al pari di chi fa troppi straordinari o turni massacranti – è vittima di danno da usura psico-fisica colui che svolge lavoro subordinato e, per lunghissimo tempo, non può avvalersi delle pause previste in contratto.

In particolare, il danno scaturisce dal non recupero delle energie, a causa del mancato breve “stacco” durante la giornata lavorativa, e si ricollega all’esigenza di garantire salute e sicurezza. Il datore deve rispettare il d. lgs. 81/2008 ma – ancor più in alto – l’art. 2087 Codice Civile, adottando misure idonee per proteggere l’integrità fisica e morale del personale.

La decisione della Cassazione va a tutto vantaggio del dipendente non soltanto perché ribadisce la giustezza del risarcimento, ma anche conferma la correttezza della via presuntiva per accertare la responsabilità dell’azienda, per le pause negate e mancate.

In sintesi, secondo la Corte:

  • l’esistenza del danno da usura psico-fisica può essere accertata anche senza prove schiaccianti o dirette, a patto che il dipendente fornisca elementi utili a ricostruire la situazione e giungere, presuntivamente, a una decisione a lui favorevole;
  • il danno, ossia il fatto ignoto, è dedotto e riconosciuto dal giudice grazie al ragionamento logico-giuridico e ai fatti gravi, noti e acclarati.
  • questo meccanismo funziona quando il collegamento tra l’evento e le sue conseguenze dannose è talmente usuale, frequente o evidente da non richiedere una prova medica, specifica e diretta;
  • il lavoratore deve provare la mancata fruizione delle pause (ad es. tramite mail o messaggi sul cellulare, testimonianze di colleghi, oppure ordini di servizio che vietano la pausa). Parallelamente, il datore ha l’onere di dimostrare di averle invece garantite.

La Cassazione ha così confermato l’orientamento dell’appello, chiarendo nuovamente che la violazione delle regole sulle pause – se protratta nel corso del tempo – può effettivamente danneggiare la salute dei lavoratori. Sarà sempre il giudice di merito a stabilire se ricorre il danno e la sua entità, e non la Cassazione.

Che cosa cambia

Collocandosi sulla linea di precedenti pronunce (come quella recentissima sulla pausa bagno negata), la sentenza n. 20249 della Corte di Cassazione ha evidenziato un principio giurisprudenziale molto importante per tutti i datori e dipendenti: le pause ripetutamente negate determinano un danno da usura psicofisica nei lavoratori, ed è possibile chiederne un risarcimento economico. Infatti, è violato l’art. 8 del d. lgs. n. 66 del 2003 e il citato danno alla salute può essere riconosciuto con una certa elasticità, in via presuntiva e senza una prova diretta.

In linea generale, modalità e durata dell’intervallo per la pausa sono fissate dai singoli Ccnl o dai regolamenti aziendali. Se non c’è una disciplina collettiva di riferimento, al lavoratore dovrà comunque essere riconosciuta una pausa di almeno dieci minuti, che egli potrà usare come meglio crede.

Concludendo, questa decisione della Cassazione potenzia notevolmente la tutela dei dipendenti. In ipotesi di mancata concessione delle pause (non occasionale), i lavoratori hanno ora un importantissimo precedente giurisprudenziale a cui appoggiarsi, per chiedere il risarcimento danni. È essenziale però raccogliere prove documentali o testimoniali che evidenzino la mancata fruizione delle pause.