Imprese femminili in Italia: record europeo, ma ogni anno chiudono oltre 3mila attività

Crescono le imprese guidate da donne, ma ogni anno ne chiudono oltre tremila per ostacoli strutturali come l’accesso limitato al credito o la difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare

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Emanuela Galbusera

Giornalista di attualità economica

Giornalista pubblicista, ha maturato una solida esperienza nella produzione di news e approfondimenti relativi al mondo dell’economia e del lavoro e all’attualità, con un occhio vigile su innovazione e sostenibilità.

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L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di imprese guidate da donne. Secondo l’ufficio studi Cgia, riportato anche da Unioncamere, le imprenditrici italiane sono circa 1,4 milioni, pari al 23% del totale delle imprese attive: un dato che pone il nostro Paese davanti a Germania, Francia e Spagna. Un primato incoraggiante, che conferma la crescita dell’imprenditoria femminile.

Ma esiste anche un rovescio della medaglia: ogni anno chiudono oltre 3.200 imprese femminili, secondo i dati Conflavoro Impresa Donna. Le ragioni? Ostacoli strutturali come l’accesso limitato al credito, la difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare, o il dover scegliere tra carriera e maternità o cura di parenti non autosufficienti.

La situazione in Italia

In Italia le imprese femminili sono 1,3 milioni, pari al 22,2% del totale, e occupano 4,7 milioni di persone, con un giro d’affari stimato tra 200 e 240 miliardi di euro, circa il 10-12% del Pil nazionale. La presenza femminile è più marcata in settori tradizionalmente legati ai servizi, come la cura della persona e le attività professionali di supporto alle imprese, dove circa sei aziende su dieci hanno una donna al comando. Rilevante anche il contributo in sanità e assistenza sociale (49%) e nell’istruzione (44%). Nel comparto manifatturiero la quota scende intorno al 20%, ma con punte significative: 27,9% nell’alimentare, oltre 30% nel tessile e nella pelletteria, e 50% nella confezione di abbigliamento.

Le imprenditrici italiane si distinguono per essere mediamente più giovani e più istruite degli uomini: molte hanno titoli universitari e una preparazione elevata. Le loro imprese, spesso di dimensioni contenute e organizzate come ditte individuali, faticano però di più a sopravvivere sul lungo periodo. Nonostante questo, mostrano segnali di vitalità: negli ultimi dieci anni le imprese femminili under 35 ad alta intensità di conoscenza sono cresciute del +41,3%.

Dal punto di vista territoriale, il Sud Italia concentra circa 500 mila imprese femminili (37% del totale). La Lombardia guida la classifica con 182 mila aziende (15%), seguita da Lazio (147 mila; 10,4%) e Campania (137 mila; 10,1%). In termini europei, queste regioni spiccano: la Lombardia è prima assoluta per numero di imprese femminili e lavoratrici autonome, mentre Lazio e Campania rientrano tra le prime dieci.

Nonostante questi numeri incoraggianti, la presenza delle giovani imprenditrici sta diminuendo: il 48% delle imprese femminili è guidato da over 50, il 38% da donne tra i 35 e i 49 anni, e solo il 14% da under 35. Come sottolinea Laura Baldi, presidente di Conflavoro Impresa Donna:

“Le imprenditrici italiane sono una risorsa fondamentale per il Paese, creano valore e occupazione. Conciliare responsabilità aziendali con quelle familiari resta però una sfida. Molte donne imprenditrici devono scegliere tra carriera e maternità, o tra lavoro e vicinanza a figli o parenti non autosufficienti. Ogni anno ciò provoca la chiusura di circa 3.200 imprese femminili. C’è un forte bisogno di politiche di tutela e sostegno”.

Chiudere una società è una responsabilità, non un fallimento

“Chiudere un’azienda non è una sconfitta: è una scelta di lucidità imprenditoriale. Troppe imprese rimangono aperte per inerzia o per mancanza di coraggio nel prendere una decisione netta. Così si rischia un boomerang che col tempo può trasformarsi in un danno fiscale, legale e personale”

spiega Sonia Canal, founder del network Partner d’Impresa.

“La verità è che chiudere una società è una responsabilità, non un fallimento: è come chiudere bene una porta per non lasciare spiragli da cui entrano vento, debiti e problemi. Una chiusura gestita con competenza libera da zavorre e apre nuove opportunità”.

Il vademecum per una chiusura “costruttiva”

Non basta chiudere la partita Iva per voltare pagina; è necessario adoperarsi per una corretta gestione degli adempimenti fiscali e contabili per evitare contenziosi che possono emergere anni dopo la chiusura dal registro imprese. Le parole d’ordine sono bilancio pulito, rispetto delle priorità legali e pianificazione fiscale.

  1. Non posticipare
    La tempestività evita oneri aggiuntivi e criticità future. Verificare che i movimenti di cassa siano tutti documentati e controllare la presenza di crediti e debiti. Inoltre è necessario comunicare la cessazione delle posizioni previdenziali per interrompere i pagamenti. Agire in ritardo o senza una pianificazione adeguata può generare effetti economici rilevanti e responsabilità personali.
  2. Il piano finanziario permette di avere una panoramica reale
    Non è il fatturato a essere indice di successo ma la reale presenza di utili e liquidità, oltre alla possibilità di accantonare fondi per investimenti senza dover rateizzare impegni fiscali e pagamenti verso i fornitori. Se nel corso degli ultimi anni, l’attività non risulta in crescita e se le spese superano gli utili è necessario porsi delle domande e rivolgersi a un consulente finanziario.
  3. Non è una sconfitta
    Interrogarsi su cosa non abbia funzionato, cosa sia stato una nostra responsabilità e cosa no è importante. Se è il mercato ad aver condizionato il nostro successo, possiamo orientare il nostro business verso una diversa direzione, riconvertendo la nostra azienda. Se non ne abbiamo la forza o se le motivazioni sono diverse, si deve lasciare andare.
  4. Non immedesimarsi nella propria attività
    Per quanto la libera professione o la propria attività di impresa siano per molte un impegno a tutto tondo, una propria creazione e il concretizzarsi di un proprio progetto, non si deve fare l’errore di identificare se stessi e il proprio valore personale con un’attività non vincente. Noi siamo altro, siamo capaci di proporre nuove idee e di reinventarci in nuovi ruolo, tutti degno di rispetto.
  5. Prendersi del tempo per riflettere
    Un momento di pausa, in cui non si orienta il pensiero su cosa sia andato male e cosa si farà in futuro, è necessario per favorire una rinascita. È bene prendersi cura di sé, regalarsi momenti piacevoli, passare del tempo per curarsi e staccare la mente da un pensiero ossessivo. In un contesto di nuova serenità, arriveranno idee migliori.
  6. Focalizzarsi sul futuro
    Ogni errore e ogni sconfitta diventa un’occasione per reinventarsi. Problem solving, creatività e resilienza se si ha un atteggiamento positivo saranno alleate per un nuovo percorso professionale vincente.