La Cina va in deflazione: cosa cambia per il resto del mondo

La Cina è in deflazione: perché l'aumento generalizzato del potere d'acquisto per famiglie e aziende cinesi non è una buona notizia

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Mauro Di Gregorio

Giornalista politico-economico

Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Palermo. Giornalista professionista dal 2006. Si interessa principalmente di cronaca, politica ed economia.

Per la prima volta in due anni la Cina sperimenta la deflazione. I prezzi dei beni e dei servizi, cioè, nel Paese del Dragone diminuiscono in maniera generalizzata e questo di fatto si traduce in un aumento del potere d’acquisto.

Cina in deflazione

Gli ultimi dati economici per la Cina, diffusi dall’Ufficio nazionale di statistica, sono tutti in negativo:

  • import: -12,4%;
  • export: -14,5%;
  • indice dei prezzi al consumo: -0,3%;
  • indice dei prezzi alla produzione: -4,4%.

La locomotiva cinese rallenta per una serie di fattori: calo dei prezzi dovuto a una flessione della domanda interna (sia dei consumatori che delle imprese), crollo del mercato immobiliare, calo nelle esportazioni e minore spesa dei consumatori. C’è da considerare poi la contrazione del credito nei confronti di famiglie e imprese.

Se dunque le economie di Stati Uniti ed Europa combattono contro l’inflazione, soprattutto andando a ritoccare i tassi di interesse, la Cina ha il problema opposto: la deflazione.

In Occidente si registra un aumento generalizzato dei prezzi dei beni e dei servizi con una conseguente flessione del potere d’acquisto per le famiglie e le imprese. Nella più robusta economia d’Oriente si verifica l’opposto.

Deflazione: significato e rischi

Le banche centrali hanno definito un tasso di inflazione ottimale pari al 2%. Traduzione: perché l’economia sia solida occorre che i prezzi aumentino costantemente del 2% l’anno. Tale soglia è indicata come indice di stabilità nel medio termine e di economica in crescita.

La deflazione invece può avere effetti deleteri, se prolungata nel tempo: la deflazione può rallentare la spesa perché può convincere i consumatori a rimandare gli acquisti nella speranza di un’ulteriore riduzione dei prezzi; il calo della domanda interna spinge le aziende a rallentare la produzione e questo si traduce immediatamente in un calo delle assunzioni o in licenziamenti. Con le imprese che limitano spese e investimenti e un calo generalizzato dell’economia può divenire più difficile il rimborso di mutui e prestiti. Le minori entrate per lo Stato si traducono in tagli generalizzati che di regola colpiscono con maggiore durezza tre settori: welfare in sostegno ai ceti più deboli, minore spesa per le infrastrutture e tagli alla sanità pubblica.

Intanto in Cina aumentano le proteste di chi è escluso dal benessere.

Deflazione in Cina e possibili effetti sull’Occidente

Occorre adesso vedere quali effetti la deflazione cinese avrà sui mercati occidentali, dal momento che l’economia del Dragone è fittamente intrecciata con quella del resto del mondo per la fornitura di materie prime e per la trasformazione dei prodotti. Già a fine maggio uno degli effetti registrati è stato il crollo del prezzo del rame che nei primi cinque mesi dell’anno ha perso il 17%. Il petrolio, poi, a maggio e rispetto all’ultimo anno solare ha perso il 50%. La conseguenza è stata il crollo dei prezzi alla produzione nei Paesi occidentali.

Gli analisti occidentali temono soprattutto che la difficile situazione interna possa portare Xi Jinping a dare corpo alle mire cinesi su Taiwan scatenando una guerra. La risposta militare imprimerebbe un boost all’industria bellica e distrarrebbe l’opinione pubblica. Oltre a rappresentare una catastrofe umanitaria e un fallimento della diplomazia, una eventuale guerra Cina-Taiwan avrebbe anche gravissime ripercussioni economiche a livello globale.

Questo è lo scenario apocalittico che si verificherebbe in caso Xi Jinping non dovesse mettere in campo una risposta incisiva. Ma è difficile che l’aggressivo capitalismo di Stato cinese non predisponga misure per invertire la rotta.