“Ora sono in atto cambiamenti che non si vedevano da cento anni. Insieme stiamo guidando questi cambiamenti”. A fine marzo il presidente cinese Xi Jinping salutò così il suo omologo russo Vladimir Putin al termine di uno storico e cruciale incontro a Mosca, uscendo quasi di nascosto da un portone laterale del Cremlino. Sembra una vita fa, eppure era ieri. E in questo lasso di tempo breve e insieme lunghissimo, in cui la guerra in Ucraina ha continuato a infiammare il mondo, Cina e Russia hanno costruito l’impalcatura di questo “grande cambiamento”, coinvolgendo tutti quei Paesi emergenti che – per usare un eufemismo – non si riconoscono nel blocco occidentale.
Il “nuovo patto” tra Orso e Dragone (di cui avevamo parlato qui) vuole letteralmente un “altro mondo”, incarnato dall’alleanza denominata BRICS (iniziali di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Un mondo multipolare, che scardini il predominio e l’influenza degli Stati Uniti e con una moneta comune che riesca a spezzare il “giogo” del dollaro come moneta di riferimento internazionale. Un mondo ambizioso che ora dovrà cambiare nome, visto che ha visto l’ingresso di nuovi Stati che intendono contrastare la Nato, il G7, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale a livello politico ed economico.
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Cosa sono i BRICS e quali Stati si sono aggiunti
La sigla BRICS rappresenta il gruppo delle economie emergenti negli Anni 2000, con prospettive di crescita elevate e con obiettivi comuni: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Insieme raggruppano metà della popolazione mondiale (oltre 3,5 miliardi di persone). L’acronimo è stato coniato nel 2001 dal banchiere Jim O’Neil, che indicò con “BRIC” (senza la “S” del Sudafrica all’epoca, che adrì al gruppo nel 2010) per indicare alcuni mercati promettenti per gli investitori ma che “non avevano nient’altro in comune tra loro”.
Il grande scossone geopolitico provocato dall’invasione russa dell’Ucraina ha fornito soprattutto alla Cina, che si percepisce e viene percepita come la potenza leader di questa unione, l’occasione per polarizzare ulteriormente la contesa con il blocco occidentale, invitando altri Paesi nel “club”. Ecco dunque che dal primo gennaio 2024 entreranno nel blocco del “Sud Globale” altre sei nazioni: Arabia Saudita, Iran, Egitto, Etiopia, Argentina ed Emirati Arabi Uniti. A Johannesburg è andato in scena un vertice BRICS di tre giorni alla presenza dei Capi di Stato, compresi Putin e Xi, che ha ufficializzato i nuovi ingressi. “Eravamo catalogati come il Terzo Mondo, ora invece siamo chiamati il Sud Globale”, ha dichiarato il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva.
E non finisce qui. A fare espressa richiesta di ingresso nel blocco sono stati almeno altri 22 Paesi, e altrettanti hanno manifestato vivo interesse a farvi parte. Chiaro segnale di un sentimento anti-occidentale sempre più diffuso? In termini economici sicuramente sì, molto più che ideologici.
Il sogno di una moneta unica: nascerà l’anti-dollaro?
Sulla carta il “Sud Globale” ha un potenziale economico che sfiora lo strapotere. Basti pensare all’infrastruttura di credito e investimenti sviluppata dal gruppo, su impulso cinese. Pechino ha infatti messo come condizione per i Paese BRICS o aspiranti tali l’adesione alla New Development Bank, istituto con sede a Shanghai che ha finora mobilitato un capitale di 30 miliardi di dollari. Il novello ingresso dell’Arabia Saudita promette una rapida crescita di questa montagna di credito, che potrebbe raggiungere i 100 miliardi di capitalizzazione (obiettivo dichiarato di Xi Jinping). Il presidente cinese ha inoltre rivendicato anche i risultati della cooperazione pratica tra la Cina e Paesi dell’Asia, dell’Africa, del Pacifico e dei Caraibi, con oltre 200 progetti. E ha annunciato un fondo da 10 miliardi per promuovere progetti di sviluppo comune. Il tutto, però, operando con quei dollari americani che i BRICS vogliono tanto combattere (via al rublo digitale: la mossa della Russia per aggirare le sanzioni).
Non solo: con l’adesione dei sei nuovi Stati, sale di ben 10 punti (dal 26% al 36%) la quota di Pil mondiale rappresentata dai BRICS, mentre la popolazione rappresentata arriva addirittura al 47% del totale globale. Numeri pazzeschi. Per il momento, però, pare che Russia e Cina debbano rinunciare al sogno di una moneta unica che contrasti il dollaro Usa. La “Dichiarazione di Johannesburg 2”, chiamata così per distinguerla da quella adottata nel 2018, si limita a suggerire a ministri delle Finanze e i governatori delle Banche centrali di “considerare la questione delle valute locali, degli strumenti e delle piattaforme di pagamento” e di riferire “entro il prossimo vertice”.
La questione resta dunque apertissima e appare molto più plausibile che l’obiettivo a breve termine dei BRICS sia operare più scambi con le monete dei rispettivi Stati a scapito del dollaro. Il “sogno” a lungo termine resta comunque quello di creare un sistema di pagamenti alternativo allo Swift, valido in tutto il mondo tranne che nella Russia colpita dalle sanzioni occidentali. Altro fattore da non sottovalutare è la presenza simultanea nei BRICS e nell’Opec+ dei quattro maggiori produttori di petrolio (Russia, Arabia Saudita, Iran ed Emirati).
Un’alleanza esplosiva: le tensioni interne ai BRICS
È altrettanto evidente che quello dei BRICS è un fronte fortemente eterogeneo, in cui coesistono Paesi con interessi confliggenti. Russia e Cina ne sono un esempio lampante: due imperi che si toccano, alleati di circostanza e partner economici tattici, certo non strategici. La strategia di entrambi è di comandare da soli, non in coppia. Una fetta ricca e promettente di investimenti riguardano la contesa Asia Centrale, dove Mosca teme la crescita inarrestabile dell’influenza cinese. Se poi si considera che nel gruppo c’è anche un’altra grande potenza asiatica, l’India, il risiko si fa più intenso. Gli equilibri interni sono carichi di tensione, anche e soprattutto alla luce dell’ultimo summit in Sudafrica, dove l’ingresso dei sei nuovi Paesi non ha soddisfatto tutti, per non dire altro.
Proprio l’India, ad esempio, non è affatto contenta della promessa adesione dell’Iran, approvata su forti pressioni della Russia e per la sua aperta rivalità con gli Stati Uniti, ed è altrettanto preoccupata della tendenza accentratrice e predominante della Cina, la quale vuole costruire un blocco centrato su di sé. Le remore all’ingresso iraniano riguardano anche Brasile e Sudafrica, per via dei loro ottimi rapporti con l’Occidente. A livello geopolitico, poi, si devono considerare anche lo scontro aperto tra la missione panaraba saudita e quella panislamica iraniana e la contesa (anche armata) tra Egitto ed Etiopia per le risorse idriche del Nilo.
Sempre l’India ha chiesto una revisione dei criteri di adesione, ottenendo una timida rassicurazione dal presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. In vista del prossimo vertice, l’anno prossimo in Russia (previsto in ottobre a Kazan), verrà presentato “un elenco” di altri “potenziali Paesi partner”. Ancora una volta è il “caldo” Lula a certificare le volontà dei BRICS: “A questa prima fase se ne aggiungerà un’altra di ulteriore ampliamento”.