Direttiva greenwashing, i nuovi divieti per le aziende: cosa cambia per i consumatori quando comprano

Il 6 marzo 2024 è stata pubblicata la Direttiva europea sul Greenwashing, che fissa nuovi importanti obblighi per le società che producono e commerciano prodotti

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Filippo Traviglia

Avvocato

Filippo Traviglia è avvocato, socio di Fabrique Avvocati Associati, con sede a Torino e desk a Bruxelles. Assiste imprese ed enti in operazioni straordinarie e questioni di governance, oltre che nel diritto amministrativo, regolatorio, della concorrenza e dell'energia.

Pubblicato: 31 Marzo 2024 12:58

Il 6 marzo 2024 è stata pubblicata la Direttiva Ue Greenwashing, che modifica le direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE per quanto riguarda “la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione”. Vediamo cos’è, e soprattutto cosa cambia per le aziende che producono, e anche per tutti noi consumatori che compriamo.

Direttivia Greenwashing Ue: cos’è e cosa prevede

Il primo “considerato” della Direttiva greenwashing fissa con chiarezza l’obiettivo, che è quello di contribuire al corretto funzionamento del mercato interno, sulla base di un livello elevato di protezione dei consumatori e dell’ambiente, e di compiere progressi nella transizione verde. In questa prospettiva viene dunque posta come essenziale la possibilità, per i consumatori, di prendere decisioni di acquisto informate e contribuire in tal modo a modelli di consumo più sostenibili.

Per raggiungere questo obiettivo, chiarisce il Parlamento europeo, occorre attribuire agli operatori economici, e dunque alle aziende, la responsabilità di fornire informazioni chiare, pertinenti e affidabili. Per questa ragione, il Parlamento introduce in materia di tutela dei consumatori norme specifiche volte a contrastare le pratiche commerciali sleali che ingannano i consumatori e impediscono loro di compiere scelte di consumo sostenibili.

Queste norme dovrebbero consentire agli organi nazionali competenti di far fronte efficacemente a queste pratiche, così che i consumatori siano messi nelle condizioni di scegliere prodotti che siano effettivamente migliori per l’ambiente rispetto ai prodotti concorrenti.

Greenwashing e obsolescenza precoce dei prodotti sono pratiche commerciali sleali

La Direttiva, innanzitutto, integra l’elenco delle pratiche commerciali vietate, includendovi da un lato una serie di strategie di marketing che potrebbero rappresentare azioni di greenwashing e, dall’altro lato, quelle pratiche produttive che tendono all’obsolescenza precoce dei prodotti, cosiddetta obsolescenza programmata.

La Direttiva si inserisce nel contesto di norme relative alla cosiddetta economia circolare, insieme ad altri interventi – ad esempio sulla progettazione ecocompatibile o nel settore tessile – e punta, così, a migliorare l’etichettatura e la durabilità dei prodotti e a reprimere dichiarazioni ingannevoli, per aiutare i consumatori a fare scelte rispettose dell’ambiente, stimolando le aziende a produrre e vendere prodotti più durevoli e sostenibili, non ricadendo in pratiche di greenwashing, che la Direttiva definisce come “asserzioni ambientali ingannevoli”.

Etichettatura dei prodotti: greenwashing e asserzioni ambientali generiche

Con la Direttiva, le istituzioni europee mirano innanzitutto a rendere l’etichettatura dei prodotti più affidabile. Modificando l’Allegato I della direttiva 2005/29/CE viene vietata la formulazione di un’asserzione ambientale generica in assenza di un’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti all’asserzione.

La Direttiva fa poi alcuni esempi di asserzioni ambientali generiche, tipo «rispettoso dell’ambiente», «ecocompatibile», «verde», «amico della natura», «ecologico», «rispettoso dal punto di vista ambientale», «rispettoso dal punto di vista del clima», «che salvaguarda l’ambiente», «rispettoso in termini di emissioni di carbonio», «efficiente sotto il profilo energetico», «biodegradabile», «a base biologica» o asserzioni analoghe che suggeriscono o danno l’impressione di un’eccellenza delle prestazioni ambientali.

Queste asserzioni generiche devono considerarsi vietate se non può essere dimostrata un’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali. Sottolineiamo anche che, secondo il rapporto Global Investor Survey stilato da PwC, che indaga i possibili impatti su fiducia e reputazione del business aziendale di una comunicazione poco trasparente rispetto ai criteri e alle attività svolte in ambito Esg, il 94% delle aziende non si fida più dei bilanci di sostenibilità delle aziende, proprio a causa dell’eccessivo greenwashing.

Se la specificazione dell’asserzione ambientale è fornita in termini chiari ed evidenti tramite lo stesso mezzo, quale lo stesso annuncio pubblicitario, la confezione del prodotto o l’interfaccia di vendita online, l’asserzione ambientale non è considerata un’asserzione ambientale generica.

Ad esempio, l’asserzione «imballaggio rispettoso dal punto di vista del clima» sarebbe una asserzione generica, mentre affermare che «il 100 % dell’energia utilizzata per produrre questo imballaggio proviene da fonti rinnovabili» sarebbe una asserzione specifica non soggetta a questo divieto, fatte salve altre disposizioni della direttiva 2005/29/CE che restano applicabili a queste asserzioni specifiche.

Inoltre, anche un’affermazione presentata in forma scritta o orale combinata con dichiarazioni implicite mediante colori o immagini potrebbe costituire un’asserzione ambientale generica.

Al contrario, un’asserzione ambientale generica quale «biodegradabile» non potrebbe essere formulata sulla base dell’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali in conformità del regolamento (CE) n. 66/2010, in quanto non ci sono requisiti di biodegradabilità nei criteri specifici relativi all’Ecolabel Ue concernenti il prodotto in questione. Analogamente, un operatore economico non dovrebbe formulare un’asserzione generica come «consapevole», «sostenibile» o «responsabile» basata esclusivamente sull’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali, in quanto queste parole riguardano altre caratteristiche oltre a quelle ambientali, come le caratteristiche sociali.

Marchi di sostenibilità solo se basati su sistemi di certificazione o stabiliti da autorità pubbliche

La Direttiva dice anche che i marchi di sostenibilità possono riguardare molte caratteristiche di un prodotto, di un processo o di un’impresa, ed è dunque essenziale garantirne la trasparenza e la credibilità. Sulla base di questo argomento, la Direttiva vieta l’esibizione di marchi di sostenibilità che non siano basati su un sistema di certificazione o che non siano stati stabiliti da autorità pubbliche, includendo queste pratiche nell’elenco di cui all’allegato I della direttiva 2005/29/CE.

Inoltre, prima di esibire un marchio di sostenibilità, l’operatore economico dovrebbe garantire che, secondo i termini del sistema di certificazione disponibili al pubblico, questo marchio soddisfi condizioni minime di trasparenza e credibilità, compresa l’esistenza di un controllo obiettivo della conformità ai requisiti del sistema.

Questo monitoraggio dovrebbe essere effettuato da un terzo, la cui competenza e indipendenza, sia dal titolare del sistema che dall’operatore economico, siano garantite sulla base delle norme e delle procedure internazionali, dell’Unione europea o nazionali. Dimostrando, ad esempio, la conformità ad alcune norme internazionali, quali la norma ISO 17065 «Valutazione della conformità – Requisiti per gli organismi di certificazione di prodotti, processi e servizi» o attraverso i meccanismi di cui al regolamento (CE) n. 765/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio.

L’esibizione di marchi di sostenibilità è possibile in assenza di un sistema di certificazione quando il marchio è stabilito da un’autorità pubblica o in caso di forme di espressione e presentazione supplementari degli alimenti utilizzate in conformità dell’articolo 35 del regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio.

La Direttiva fa poi alcuni esempi di marchi di sostenibilità stabiliti dalle autorità pubbliche quali, ad esempio, i loghi assegnati per la conformità ai requisiti dei regolamenti (CE) n. 1221/2009(6)o (CE) n. 66/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio. Inoltre, alcuni marchi di certificazione, quali definiti all’articolo 27 della direttiva (UE) 2015/2436 del Parlamento europeo e del Consiglio, possono fungere anche da marchi di sostenibilità se promuovono un prodotto, un processo o un’impresa con riferimento, ad esempio, alle sue caratteristiche ambientali o sociali o a entrambe.

L’azienda dovrebbe poter esibire questi marchi di certificazione solo se sono stabiliti da autorità pubbliche o basati su un sistema di certificazione. Questa norma integra l’allegato I, punto 4, della direttiva 2005/29/CE, che vieta di asserire che un operatore economico, le sue pratiche commerciali o un prodotto sono stati approvati, accettati o autorizzati da un organismo pubblico o privato quando ciò non sia avvenuto o senza rispettare le condizioni dell’approvazione, dell’accettazione o dell’autorizzazione ricevuta.

Stop alle dichiarazioni che suggeriscono un impatto neutro sull’ambiente

La Direttiva vieta poi le dichiarazioni che suggeriscono un impatto sull’ambiente neutro, ridotto o positivo in virtù della partecipazione a sistemi di compensazione delle emissioni (neutralizzazione di emissioni di CO2, o carbon offset).

Al bando anche le dichiarazioni ambientali basate esclusivamente su sistemi di compensazione delle emissioni di carbonio e altre pratiche ingannevoli, come fare una dichiarazione sull’intero prodotto se la dichiarazione è vera solo per una parte di esso, o affermare che un prodotto durerà un certo periodo di tempo o potrà essere utilizzato con un determinato livello di intensità se ciò non è vero.

Prodotti e consumatori: la durata dei prodotti

La Direttiva mira anche a rendere produttori e consumatori più attenti alla durata dei prodotti. In futuro, le informazioni sulla garanzia dovranno essere più visibili e verrà creato un nuovo marchio armonizzato, “harmonised label”, per dare maggiore risalto ai prodotti con un periodo di garanzia più esteso.

Le nuove norme vietano anche le indicazioni infondate sulla durata, ad esempio, dichiarare che una lavatrice durerà per 5.000 cicli di lavaggio, se ciò non è esatto in condizioni normali, o gli inviti a sostituire i beni di consumo prima del necessario (spesso accade, ad esempio, con l’inchiostro delle stampanti) e le false dichiarazioni sulla riparabilità di un prodotto.

Il caso particolare del settore tessile, value chain e end of waste

La Direttiva prevede che la Commissione debba rivalutare i criteri del marchio Ecolabel UE per i prodotti tessili e le calzature, per sostenerne l’adozione da parte dei produttori e offrire ai consumatori un modo facilmente riconoscibile e affidabile nella scelta dei prodotti tessili sostenibili.

In un’ottica di rimozione della sovrapproduzione e al consumo eccessivo, nonché di distruzione di prodotti resi o invenduti, la Commissione proporrà un obbligo di trasparenza che impone alle grandi aziende di rivelare pubblicamente il numero di prodotti tessili che scartano e distruggono.

La Commissione dovrà chiedere all’industria della moda la sostituzione delle sostanze pericolose nei prodotti tessili immessi sul mercato europeo e l’adozione di un riciclo responsabile ed innovativo da fibra a fibra. Così i produttori dovranno assumersi la responsabilità dei loro prodotti lungo la propria value chain, e dovrà essere perciò definita con urgenza la normativa europea di riferimento dell’end of waste (cessazione della qualifica di rifiuto) nel settore tessile e armonizzare le norme in materia di responsabilità estesa del produttore (EPR) per i tessili e gli incentivi economici per rendere i prodotti più sostenibili.

I tempi di applicazione della Direttiva, il ruolo degli Stati membri e i processi di compliance delle aziende

La Direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde fa parte di un pacchetto di quattro proposte legislative europee e si aggiunge, quindi, al regolamento sulla progettazione ecocompatibile (“Regolamento Eco-Design”) e alle proposte di direttive sulle autodichiarazioni ambientali (“Direttiva Green Claims”) e sul diritto alla riparazione.

La Direttiva entra in vigore il ventesimo giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, e gli Stati membri avranno tempo sino al 27 marzo 2026 per recepirla nel diritto nazionale.

Sarà compito degli Stati membri, in fase di recepimento con legge nazionale, dare la migliore applicazione alla Direttiva per evitare di depotenziarne l’impatto, ad esempio con riferimento agli aspetti sanzionatori che non sono in dettaglio trattati nella Direttiva. Molto, in sostanza, dipenderà dall’importanza che ciascuno Stato membro vorrà attribuire a questo importante intervento, ad esempio prevedendo regole di raccordo e specifici compiti in capo alle autorità indipendenti.

Lato imprese, invece, sarà opportuno prestare particolarmente attenzione sia all’etichettatura sia, più complessivamente, alla comunicazione, pubblicitaria, e non solo, e ciò specialmente in settori maggiormente delicati e sensibili come, ad esempio, quello del food.