Il 19 agosto alcuni dipendenti di Microsoft sono stati arrestati dopo aver manifestato nel campus di Redmond contro l’uso della piattaforma Azure da parte dell’esercito israeliano. L’inchiesta del Guardian ha mostrato come i server dell’azienda, guidata da Satya Nadella, siano stati utilizzati dall’unità 8200 per archiviare intercettazioni e dati di milioni di palestinesi, informazioni poi impiegate nelle operazioni militari a Gaza.
La protesta, ribattezzata “worker intifada”, non è solo una questione interna: mette a nudo la responsabilità di una Big Tech che fornisce le proprie infrastrutture digitali a un sistema di sorveglianza capace di trasformare la Palestina in un laboratorio di controllo totale. Mentre i gawai e le voci dei lavoratori chiedono trasparenza, Microsoft si ritrova accusata di rendere possibile, con le proprie tecnologie, un apparato che va oltre la sicurezza e sfocia in pratiche di repressione e annientamento.
Indice
Arresti e proteste di dipendenti Microsoft
Il 19 agosto, alcuni dipendenti di Microsoft hanno deciso di manifestare nel campus di Redmond, la sede centrale dell’azienda, contro l’utilizzo militare delle tecnologie nelle azioni di Israele contro il popolo palestinese. Non sono i primi dipendenti che scioperano e non saranno gli ultimi a subire le conseguenze del loro posizionamento. Tra questi il gruppo interno che ha accusato esplicitamente l’azienda di permettere che la loro tecnologia venga utilizzata per sorvegliare, affamare e uccidere i palestinesi: un gruppo chiamato “No Azure in apartheid”.
Non sono neanche i primi arresti di questo tipo. Durante l’evento Build 2025 a Seattle lo scorso maggio, un uomo si è alzato dalla platea e ha iniziato a gridare contro il Ceo di Microsoft di mostrare al pubblico come l’azienda stesse uccidendo i palestinesi. L’amministratore delegato resta in silenzio per alcuni secondi mentre due uomini della sicurezza prendono il dipendente che stava manifestando e lo trascinano fuori dalla sala.
A contestare Microsoft è stato Joe Lopez, non uno qualunque, ma un dipendente proprio del team di Azure hardware system di Microsoft. L’uomo ha anche dichiarato che si rifiutava di essere complice del genocidio. Dopo il fatto avrebbe inviato un’e-mail ai colleghi affermando che:
La leadership aziendale respinge le nostre affermazioni secondo cui la tecnologia Azure viene utilizzata per colpire e danneggiare i civili a Gaza. Quelli di noi che hanno prestato attenzione sanno che questa è una sfacciata bugia.
Azure e l’archivio dei palestinesi
Ed è proprio Azure la tecnologia al centro dell’inchiesta pubblicata dal The Guardian. Tutto ha inizio alla fine del 2021, quando l’unità 8200, il reparto dell’esercito israeliano che si occupa di sorveglianza, si è resa conto di non avere abbastanza spazio per archiviare tutto il materiale. Si è così rivolta a Microsoft. Yossi Sariel, che guida il reparto, e Satya Nadella, l’amministratore delegato di Microsoft, si sono incontrati per mettere a punto la collaborazione.
Si tratta di un rapporto fruttuoso per entrambe le parti. L’unità 8200 può così archiviare una quantità di informazioni riservate enorme. Secondo i documenti, a luglio 2025 i terabyte occupati da circa 200 milioni di ore di audio di chiamate erano circa 11.500. Questo solo nel server con sede nei Paesi Bassi. In Irlanda invece pare essere archiviata una quantità inferiore. Non tutti i dati potrebbero appartenere all’unità 8200, ma anche ad altri reparti militari. In ogni caso sembra che nell’accordo con l’unità 8200 ci fosse l’intenzione di spostare fino al 70% dei propri dati nel cloud Azure. Tra questi anche file top secret.
Sembra che questo sistema sia stato pensato prima di tutto per essere utilizzato in Cisgiordania dove vivono circa 3 milioni di palestinesi sotto l’occupazione militare, ma dopo i fatti del 7 ottobre 2023 l’attività è stata allargata e le azioni compiute dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza sarebbero state agevolate proprio dalle capacità di archiviazione di Azure.
La risposta di Microsoft
In seguito alla protesta, definita anche come una “worker intifada”, l’azienda ha dichiarato:
Continueremo a impegnarci con determinazione per sostenere il nostro standard in materia di diritti umani in Medioriente, sostenendo e adottando misure concrete per contrastare le azioni illegali che danneggiano la proprietà, perturbano le attività commerciali o minacciano e danneggiano altre persone.
Una risposta che non risponde in realtà nei termini a chi ha protestato con forza contro l’utilizzo delle tecnologie di Microsoft nel genocidio in corso. Una risposta quindi pigra e che nel suo tono sembra ammettere che non ci sia una possibilità di dialogo e tanto meno una volontà di chiudere i rapporti con Israele. La richiesta di chi protestava era proprio questa, ma l’azienda ha messo un punto alla vicenda negando tutto.
Un portavoce di Microsoft ha infatti dichiarato che quanto è stato ricostruito dall’inchiesta “non è accurato”. Viene dichiarato che Nadella fosse arrivato alla riunione di quel 2021 soltanto negli ultimi 10 minuti, un tempo nel quale non sarebbe stato discusso il contenuto dei dati da archiviare nel cloud di Microsoft. Eppure, dai documenti della riunione, emerge che lo stesso amministratore delegato abbia offerto il proprio sostegno all’iniziativa di Sariel. Era quindi a conoscenza che quei dati, appartenenti a unità speciali militari israeliane, comprendevano materiale sensibile.
In merito a quanto emerso, l’esercito israeliano ha dichiarato che la collaborazione con aziende come Microsoft è basata su accordi verificati sul piano legale e che “l’esercito opera nel rispetto del diritto internazionale con l’obiettivo di contrastare il terrorismo e garantire la sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini”.
L’utilizzo di Azure
Per capire come venisse utilizzata la tecnologia Azure da parte dell’esercito israeliano, basterebbe leggere il libro pubblicato sotto pseudonimo da Sariel. L’uomo della sicurezza dell’esercito israeliano infatti invita da tempo i servizi di sicurezza a migrare verso gli archivi digitali. Questo dichiarò che l’utilizzo di nuove tecnologie aveva lo scopo di garantire la vita degli israeliani. La motivazione principale era quindi evitare gli attacchi terroristici contro i cittadini di Israele. Questo sistema comunque non sembra aver impedito gli attacchi del 7 ottobre 2023, condotti da Hamas e costati la vita a 1200 persone. Dopo l’attacco, per molti sottovalutato e per altri permesso per dare inizio all’operazione a Gaza, Yossi Sariel è stato molto criticato e ha rassegnato le dimissioni ammettendo le responsabilità dell’unità 8200 negli errori di intelligence e operativi. Il sistema da lui ideato comunque continua a essere utilizzato come strumento del massacro di civili non solo nella Striscia, ma anche in Cisgiordania.
Sono fonti interne all’unità 8200 che confermano come le informazioni custodite sul cloud di Microsoft conferiscano un vero e proprio archivio della popolazione della Cisgiordania e siano utilizzate per ricattare e arrestare individui fino anche a giustificare la loro uccisione a posteriori. Sempre secondo una di queste fonti, “quando abbiamo bisogno di arrestare qualcuno e non abbiamo una ragione valida per farlo, troviamo sempre una scusa nell’archivio”.
Mentre Microsoft dichiara che l’azienda non possiede informazioni su dati archiviati dall’unità 8200, e precisa che la collaborazione fosse basata sul rafforzamento della cybersicurezza e la protezione di Israele dagli attacchi terroristici, dipendenti dell’una e dell’altra parte dichiarano che non ci volesse un genio per capire a quale scopo sarebbe stato utilizzato Azure da parte dell’unità. Quindi anche se Microsoft dichiara che non ha mai iniziato la sorveglianza nei confronti dei civili con l’intercettazione di conversazioni telefoniche coscientemente, il piano di Yossi Sariel appariva chiaro a molti. Il comandante del reparto aveva in più di un’occasione, come nel libro che ha pubblicato, dichiarato che la soluzione era quella di “cominciare a intercettare chiunque e sempre”. Invece di seguire un approccio basato sulla sorveglianza degli obiettivi specifici, cioè le persone potenzialmente pericolose, il progetto era quello di una sorveglianza di massa dei palestinesi in Cisgiordania. Una fonte che ha collaborato al progetto ha raccontato che in questo modo “all’improvviso l’intera popolazione palestinese è stata trasformata in un nemico”.
Da prigione coloniale a prigione digitale
Israele quindi non si è limitato, per così dire, a controllare l’ingresso di cibo e acqua, materiale sanitario, benzina e persone. Israele si è spinto anche a controllare le comunicazioni, schedando i palestinesi in archivi digitali. È un nuovo sistema carcerario, quello in cui ogni individuo è osservabile, schedabile e attraverso i suoi dati in qualche modo prevedibile. Nel caso di Microsoft, il cloud permette l’archiviazione di milioni di telefonate, messaggi, profili, permettendo un controllo capillare dell’intera popolazione.
In linea teorica, in un panopticon fisico e digitale, potrebbe essere superfluo il genocidio. Se si possono prevedere e prevenire le azioni, neutralizzandole prima ancora della riuscita, perché sterminare un popolo? Qui emerge il nodo politico: Israele non cerca solo di controllare i palestinesi, ma di eliminarne la presenza fisica da Gaza. In questi termini la sorveglianza non serve soltanto a sostituire la violenza, ma a prepararla e a renderla più efficace. Prima schedi e disumanizzi, poi giustifichi i massacri in nome della sicurezza.
In questo modo, la Palestina, Gaza e Cisgiordania non sono più soltanto la più grande prigione del mondo, come ha descritto Ilan Pappè nei suoi numerosi scritti, ma evolvono nel più grande laboratorio di sorveglianza del mondo in senso lyoniano.
La Palestina diventa così un laboratorio per testare l’etica e la morale, i limiti del diritto internazionale e fino a che punto si può sorvegliare un individuo. Lo ha espresso con durezza il presidente colombiano Gustavo Petro che si è riferito alla Palestina come un laboratorio del terrore: “Un esperimento dei mega ricchi che cercano di dimostrare a tutti i popoli del mondo, come si risponde a una ribellione”. Per tutti i popoli del mondo il monito è quello di non lasciare alle tecnologie di sorveglianza, create dai nuovi potenti, di soffocare l’idea che sia ancora possibile ribellarsi alla violenza e al controllo.