Corruzione Venezia, spuntano intercettazioni: Boraso bruciava documenti nella stufa

Le intercettazioni che hanno portato all’arresto di Boraso mostrano un sistema di tangenti e corruzione a Venezia, con prove distrutte e documenti falsi

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Francesca Secci

Giornalista

Giornalista pubblicista con esperienza in redazioni rilevanti, è specializzata in economia, finanza e geopolitica.

Le indagini che hanno portato all’arresto dell’ex assessore Renato Boraso e all’incriminazione del sindaco Luigi Brugnaro rivelano un sistema di tangenti e corruzione radicato nel Comune di Venezia.

L’8 gennaio scorso, Renato Boraso, arrestato il 16 luglio per corruzione, è stato intercettato mentre cercava di eliminare prove compromettenti. Nella sua abitazione, era intento a bruciare documenti incriminanti con l’aiuto della madre. Secondo gli investigatori, stava cercando di eliminare le tracce dei suoi illeciti.

Le accuse di corruzione e le indagini della Guardia di Finanza

Le accuse contro Boraso emergono da un’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza e dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini. Gli inquirenti ritengono che abbia ricevuto tangenti per facilitare la vendita di Palazzo Papadopoli, come denunciato dall’imprenditore Claudio Vanin nel programma televisivo Report.

Le indagini hanno rivelato che l’assessore avrebbe simulato la produzione di documenti per giustificare somme di denaro ricevute, distruggendo contemporaneamente le prove delle sue attività illecite.

La simulazione di consulenze per coprire le tangenti

La Guardia di Finanza ha ricostruito come Boraso abbia creato false consulenze per mascherare le tangenti ricevute. Il 13 dicembre l’ex assessore contattava la titolare di un’agenzia immobiliare di Padova, per la quale la sua società, Stella Consulting, aveva emesso fatture per quasi mezzo milione di euro tra il 2016 e il 2019.

Inoltre richiedeva urgentemente documenti relativi alla vendita dell’ex sede dell’Università di Rio Novo, trasformata in un hotel: “Avrei bisogno che mi porti uno… anche due fogli, cinque fogli… una relazione su quel ca**o di hotel p**ca p*****a, anche fossero due pagine”.

La Procura, nella richiesta di custodia cautelare, ha evidenziato il rischio che Boraso potesse reiterare i reati e contaminare le prove – le stesse motivazioni che hanno portato agli arresti domiciliari per Giovanni Toti, che si è dimesso da presidente della Regione Liguria.

La decisione di chiedere l’arresto è stata influenzata dalla necessità di prevenire ulteriori tentativi di eliminazione delle prove, come quelli osservati l’8 gennaio. Grazie all’uso di un trojan installato sul cellulare dell’ex assessore, gli inquirenti hanno potuto monitorare e documentare i suoi sforzi per nascondere le tracce delle sue attività illecite.

Le conversazioni telefoniche di Boraso

Secondo la procura, Boraso si trovava in gravi difficoltà economiche, tanto da rendere necessario il sequestro di circa 800mila euro. I pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini hanno detto che le sue precarie condizioni finanziarie erano un “acceleratore delle iniziative corruttive” e comportavano un concreto rischio di dispersione dei proventi delle sue attività illecite.

Le informative della Guardia di Finanza descrivono un Boraso continuamente impegnato in incontri, telefonate e arrabbiature con chi non rispettava i pagamenti dovuti.

Come riporta il Corriere della Sera, nel novembre scorso era al telefono con Matteo Volpato, un altro imprenditore al centro delle indagini della procura. Boraso, frustrato, esprimeva la necessità di effettuare pagamenti urgenti a diversi fornitori, parlando della gravità della situazione finanziaria della sua azienda.

Dalle intercettazioni appare evidente che Boraso si trovava in una situazione di continua agitazione. Le autorità hanno richiesto e ottenuto il suo arresto, mettendo in risalto le sue “precarie condizioni finanziarie” e i “debiti delle sue società con il ceto bancario”.

Secondo i pm, queste difficoltà finanziarie costituivano un acceleratore delle iniziative corruttive del pubblico amministratore, aumentando il rischio di dispersione dei proventi delle sue attività illecite.

Il sistema di pagamenti e favori

Durante le indagini, è emerso un complesso sistema di pagamenti e favori messo in atto da Boraso. Un esempio è la vicenda con Filippo Salis, con cui Boraso aveva concordato un pagamento di 100 mila euro, ma che alla fine gli voleva dare solo 60 mila.

Un altro episodio riguarda un bonifico ricevuto il 2 novembre da Roberto Tonon per un totale di 29.500 euro. Da questo pagamento, Boraso impartiva istruzioni precise per distribuire i fondi tra diverse società. Parte del denaro andava alla Boraso Agricola per coprire rate di mutuo e stipendi, mentre altre somme erano destinate a Esa 2000 per evitare il default bancario.