Compie due anni il protocollo Italia-Albania, l’accordo cardine del governo Meloni per “esternalizzare” le frontiere e gestire i migranti irregolari. Un compleanno amaro, quello del progetto che avrebbe dovuto rivoluzionare la gestione dei flussi, segnato da costi elevati, intoppi giudiziari e risultati operativi finora marginali rispetto alle attese. Giovedì 13 novembre Giorgia Meloni accoglierà Edi Rama a Roma per il primo vertice intergovernativo tra i due Paesi e ovviamente si parlerà dell’accordo sui migranti.
Come ha spiegato Palazzo Chigi in una nota, il vertice costituirà l’occasione
per fare il punto sulla cooperazione bilaterale e per concordare ulteriori iniziative volte a rafforzare il partenariato strategico tra Roma e Tirana.
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Numeri bassi e costi troppo alti
L’obiettivo era ambizioso: strutture in Albania per una capienza teorica di 3.000 persone contemporaneamente, con l’aspettativa di processare fino a 36.000 richieste d’asilo all’anno grazie a procedure accelerate.
La realtà, secondo i dati del Viminale, è ben diversa: dai centri di Shëngjin e Gjader sono passate circa 1.000 persone in totale. Attualmente i presenti sono circa 40.
A fronte di questi numeri, i costi per le strutture in Albania sono ingenti. La legge di ratifica stanzia circa 650 milioni di euro per 5 anni. Tra le voci principali:
- oltre 250 milioni per le trasferte del personale italiano;
- 133,8 milioni per un appalto di gestione di 24 mesi.
Ma il costo reale rimane un rebus: il Governo non fornisce dati dettagliati.
ActionAid, in un esposto alla Corte dei Conti, ha calcolato che il solo centro di Gjader, operativo per pochi giorni nel 2024 per 20 persone, sarebbe costato 570.400 euro (114.000 euro al giorno).
L’ostacolo dei giudici e il rebus dei “Paesi sicuri”.
Il progetto si è scontrato fin dall’inizio con una lunga serie di mancate convalide dei trattenimenti da parte dei giudici. Il nodo cruciale è la lista dei Paesi sicuri, essenziale per le procedure accelerate.
Una sentenza della Corte di Giustizia Ue nell’ottobre 2024 ha stabilito che la sicurezza di un Paese non può essere data per scontata in assoluto, ma deve essere valutata caso per caso, anche per categorie specifiche come le persone omosessuali.
Questo principio ha invalidato di fatto l’approccio italiano, basato su una lista ministeriale, e ha dato il via a un braccio di ferro tra Governo e magistratura.
L’Esecutivo ha reagito con due decreti legge per rafforzare la lista dei Paesi sicuri e spostare la competenza sulle convalide dei trattenimenti dalle Sezioni Immigrazione dei Tribunali alle Corti d’Appello.
Ma le pronunce della Corte Ue del 1° agosto 2025 hanno ribadito con forza il diritto dei giudici di verificare la sicurezza del rimpatrio in ogni singolo caso, definendo come una “intromissione indebita” la reazione di Palazzo Chigi.
Il modello ridimensionato e le prospettive future
Di fronte agli stop giurisdizionali, l’unica struttura che oggi continua a operare in Albania è il Cpr (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) di Gjader, con numeri contenuti. Un altro problema segnalato dalla Corte Costituzionale è l’assenza di una normativa che disciplini le modalità del trattenimento, garantendo le dovute tutele ai migranti.
La premier Meloni, che aveva promesso di far diventare operativi i centri migranti in Albania “dovessi passarci ogni notte”, non demorde.
Puntando al nuovo vertice tra Italia e Albania del 13 novembre a Roma, il Governo guarda al 2026, quando l’entrata in vigore del Patto Ue su Migrazione e Asilo potrebbe rendere i “return hub” un modello europeo.
Intanto, insieme ad altri 8 Paesi, spinge per una revisione delle convenzioni internazionali sui diritti umani, per aggirare quei “lacci” giuridici che finora hanno frenato il progetto albanese. Un progetto il cui bilancio, a due anni dal via, è fatto più di costi e contenziosi che di risultati concreti.