Mettete assieme un gruppo di specialisti in urologia, che hanno scelto di unire competenze e risorse. Integrateli in una struttura, C.Ur.E. – Centro Urologico Europeo, che riesca a coniugare eccellenza professionale, innovazione terapeutica e sostenibilità, riunendo esperti con in chirurgia robotica, laser, andrologia e uroginecologia. E poi provate a vedere quanto e come questo approccio di medicina avanzata sostenibile e trasparente possa offrire risposte specifiche per la prevenzione del tumore della prostata.
La rete, che vanta numerose collaborazioni con Università, è attiva in Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Veneto, Puglia, Abruzzo, Campania, Toscana, Calabria, Sicilia, Sardegna. Tornando a quanto si è realizzato con il modello “Modena” ecco il parere di Giovanni Ferrari, presidente del Presidente Centro Urologico Europeo (CUrE), che ha portato avanti quanto realizzato nella cità emiliana.
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Un’idea particolare
Il lavoro di prevenzione di questa forma tumorale parte da lontano.
“Nasce nel 1989, quando mio padre, il professor Paolo Ferrari, avviò in Italia il primo percorso di diagnosi precoce del carcinoma prostatico. Da chirurgo generale si rese conto che per la donna esistevano già programmi di prevenzione (seno, utero), mentre per l’uomo non c’era nulla. In accordo con i sindaci dei comuni modenesi iniziammo visite gratuite per i cittadini sopra i 50 anni, invitati a presentarsi con PSA ed esame urine. Dal 1989 al 2008 furono visitati 70 mila pazienti”
spiega Ferrari.
Sia chiaro. Rispetto ad oggi la situazione era estremamente diversa. Solo nel 1993 Fritz Schroder, oggi massimo esperto europeo sul tema, avviò un protocollo pubblicato nel 2014 su Lancet, che dimostrò come lo screening riduca la mortalità. Ci è voluto tempo perché il tumore prostatico è a progressione lenta: sono serviti 20 anni per raccogliere dati solidi. Ma ora il modello Modena mostra il valore dell’iniziativa.
“Nei 70 mila pazienti visitati abbiamo pubblicato un’analisi che mostra che su 619 uomini, 269 (43,5%) avevano un adenocarcinoma; di questi, 182 (67,5%) erano organo-confinati, mentre 87 erano già localmente avanzati o metastatici. Sul fronte epidemiologico, a Modena l’incidenza passò da 34,7 casi ogni 100.000 abitanti (1988-90) a 78 casi (2008). La mortalità, invece, calò dal 44,5% (63 morti su 141 nuovi casi/anno) al 17,2% (155 morti su 899 nuovi casi/anno) nel 2011-12: un -27,3%. Confrontando con Reggio Emilia e Parma, che non avevano adottato alcuno screening, nel 2011-12 si contavano 541 nuovi casi con 129 decessi (23,8%). A Modena, dunque, si moriva meno grazie allo screening”
fa sapere Ferrari.
Quanto vale lo screening
La storia racconta di un risultato sicuramente importante. Dall’idea di un singolo urologo e dalla forza di pochi volontari si è dimostrato che la cultura “contro” PSA e screening è stata superata.
“Oggi ci sono molte evidenze scientifiche: lo screening ha un ruolo cruciale nella diagnosi precoce e nella riduzione della mortalità”
riprende Ferrari.
“L’abbinamento PSA ed esplorazione rettale resta la combinazione vincente, anche perché non bisogna dimenticare che nel 10% dei pazienti con tumore prostatico il PSA risulta normale. L’esame rettale, pur temuto dagli uomini, è in realtà innocuo se eseguito con delicatezza: il medico deve essere attento e il paziente messo a proprio agio”.
Per ricordare quanto e come sia importante arrivare presto e soprattutto far riflettere il maschio sul bisogno di prevenzione, la Società Italiana di Urologia ha rilanciato il tema con campagne come Movember, dedicate alla prevenzione maschile. L’idea è di istituire ambulatori gratuiti con slot dedicati, dove gli uomini tra 50 e 75 anni possano prenotarsi, portare PSA ed esame urine, fare la visita e avere un percorso chiaro. Se c’è un sospetto, il paziente viene guidato fino alla diagnosi e alla terapia; se è tutto negativo, si pianifica un controllo periodico.
“Diagnosticare precocemente significa guarire in alta percentuale e ridurre gli effetti collaterali di terapie più aggressive, come incontinenza e problemi di erezione”.
Più consapevolezza
Per il maschio, quindi, la consapevolezza è fondamentale. E bisogna puntare sulla conoscenza, altrimenti si tende a sfuggire alle visite urologiche perché considerate “scomode”. Ma la sensibilizzazione culturale aiuta a superare questa resistenza.
“La prevenzione del tumore alla prostata ha lo stesso diritto degli screening per mammella, colon e apparato genitale femminile. Tutti gli uomini tra 50 e 75 anni, soprattutto se con familiarità per tumore della prostata o della mammella, devono sottoporsi a PSA, esame urine e visita. Oggi, grazie alle evidenze e alle nuove tecnologie, se il tumore viene preso in tempo non è letale”
conclude l’esperto.
Chi è a rischio
Il rischio di sviluppare un tumore della prostata aumenta con l’età e dipende da una combinazione di fattori non modificabili (età, etnia, storia familiare, predisposizione genetica) e modificabili/ambientali (alimentazione, obesità, esposizioni professionali).
Le linee guida delle società scientifiche europee EAU ed americane AUA indicano esplicitamente gruppi ad alto rischio per i quali può essere opportuno iniziare lo screening più precocemente (per esempio uomini con storia familiare o con mutazioni germinali note).
Più specificamente il rischio cresce nettamente dopo i 50 anni e ancora di più oltre i 65. Conta molto la storia familiare: avere parenti di primo grado (padre, fratello) con tumore della prostata aumenta il rischio, che risulta ancora maggiore se più parenti sono colpiti o la malattia è comparsa in età giovane. Infine ci sono mutazioni germinali ereditarie: alcune varianti patogene in geni della riparazione del DNA e altri (ad esempio BRCA2, BRCA1 in misura minore, CHEK2, ATM, PALB2) aumentano la probabilità di sviluppare carcinoma prostatico e spesso sono associate a fenotipi più aggressivi. Il tutto, senza dimenticare che una dieta ricca di grassi saturi, l’obesità e la sedentarietà possono contribuire ad aumentato rischio o a peggior prognosi, anche se i dati sono meno netti rispetto ai fattori genetici.