All’inizio sembrava troppo competente, troppo super partes per poter guidare l’Italia. All’inizio era addirittura in lizza per succedere a Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Alla fine, però, l’ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è diventato Presidente del Consiglio e tale è rimasto per quasi un anno e mezzo (e di recente è stato premiato come “miglior statista dell’anno”). Per la precisione 522 giorni, circa 17 mesi, dal giuramento del 13 febbraio 2021 alle dimissioni del 21 luglio 2022 (qui abbiamo parlato di quanto costeranno al Paese).
La sua entrata in scena era avvenuta secondo l’ormai classico copione italiano, e cioè dopo la crisi e la caduta del Governo precedente. All’epoca era il Conte II, caduto il 26 gennaio 2021 e fino ad allora guidato dal leader del M5s che – ironia della sorte – è stato il principale artefice del forfait del suo successore. E che ora attende, come l’Italia intera, la direzione che il Paese deciderà con le elezioni politiche del 25 settembre (ecco come si vota: il fac-simile delle schede).
Come è iniziato e come è finito il Governo di unità nazionale
Draghi si ritrovò a guidare un (altro) Governo di unità nazionale con una maggioranza molto ampia, ma per forza di cose anche instabile e lacerata da dissidi interni. Ma cosa vuol dire nel concreto Governo di unità nazionale? Si tratta di un Esecutivo che si regge sul sostegno della totalità (o quasi) delle forze presenti in Parlamento. Una missione pressoché impossibile, nonostante le buone intenzioni.
E infatti nel luglio scorso è arrivato lo strappo da parte di una delle forze politiche di questa presunta “unità”, il Movimento 5 Stelle che, decidendo di non votare a favore della legge di conversione del Decreto Aiuti, ha dato avvio alla crisi di Governo (della spaccatura avevamo parlato qui). Nonostante il provvedimento sia stato poi approvato da entrambe le Camere, Mario Draghi ha deciso di rassegnare comunque le proprie dimissioni. Proprio perché era venuta meno “l’unità nazionale” con la quale il suo Governo era nata e in virtù della quale ha preso tutte le sue decisioni.
A partire delle riforme, tante, che hanno visto la luce in questo ultimo anno e mezzo. La maggior parte delle leggi che hanno concluso l’iter parlamentare sono state però di iniziativa governativa e in molti casi l’Esecutivo ha fatto ricorso a decreti legge e questioni di fiducia.
I voti di fiducia
Proprio il dato sui voti di fiducia fornisce indicazioni importanti per tracciare un pur parziale bilancio dell’esperienza di Draghi a Palazzo Chigi. Come riporta Openpolis, nell’arco di 17 mesi, il governo Draghi ha posto la questione di fiducia in 55 occasioni. Considerando i governi delle ultime 3 legislature, solo l’Esecutivo guidato da Matteo Renzi ha registrato un dato maggiore (66), anche per via della durata quasi doppia rispetto a quello uscente (33 mesi).
Se però si considera il dato medio di questioni di fiducia poste ogni mese, l’amministrazione Draghi passa al primo posto con 3,24 voti di fiducia di media. Al secondo posto troviamo il Governo Monti (3), al terzo il Governo Conte II (2,25). Questo dato indica quanto l’emergenza Covid abbia influenzato l’attività politica italiana, in particolare degli ultimi due Governi.
Le leggi approvate dal Governo Draghi
Sul fronte legislativo, che coinvolge dunque anche il Parlamento, dal 13 febbraio 2021 al 15 luglio 2022 l’Esecutivo Draghi ha approvato in totale 125 leggi. La maggior parte sono ratifiche di trattati internazionali (44), praticamente pari alle conversioni di decreti legge (43). Seguono invece a grande distanza le leggi ordinarie (21) e le leggi delega (10). Un ritmo di 7,35 leggi al mese: meno delle 7,91 leggi del Governo Renzi e più delle 7,12 del Governo Monti.
Di tutte queste leggi approvate in via definitiva, 8 su 10 sono di iniziativa governativa. Una percentuale importante che denota il peso politico giocato dal Governo Draghi nell’iter legislativo poi portato avanti dal Parlamento. Al di là dei giudizi e delle fazioni.