La pensione di reversibilità è un trattamento pensionistico riconosciuto ai familiari superstiti in caso di decesso del pensionato. Pari a una quota percentuale del trattamento, la pensione in oggetto è stata recentemente al centro di una decisione della Cassazione, l’ordinanza n. 23851 di quest’anno, che si è occupata della suddivisione dell’importo della reversibilità tra tra ex coniuge e coniuge superstite (seconde nozze).
La pronuncia è molto interessante perché, oltre a chiarire l’aspetto della decorrenza, fa luce sui rapporti economici in casi come questi, confermando che, insieme al criterio della durata del matrimonio, possono assumere rilievo altri criteri. Vediamo allora più da vicino il caso e la decisione finale, che offre indicazioni di chiara portata generale.
Indice
Il caso concreto e gli esiti dei primi due gradi di giudizio
La disputa giudiziaria traeva origine dalla domanda proposta da una ex moglie di un pensionato, con lo scopo di veder dichiarato il suo diritto a percepire una quota della pensione di reversibilità (che in alcuni casi spetta anche ai figli).
In primo grado, il giudice aveva effettivamente riconosciuto e assegnato alla donna il 20% del trattamento previdenziale, conferendo il restante 80% all’altra donna, in veste di coniuge superstite al momento della morte.
Per stabilire la suddivisione, il criterio prevalente fu quello della durata dei rispettivi matrimoni, con il secondo evidentemente più lungo.
Per legge, se è stato il deceduto a contrarre nuove nozze, la reversibilità spetta sia al nuovo coniuge sia al coniuge divorziato, ma per definire l’importo e le percentuali delle quote spettanti deve intervenire una sentenza della magistratura.
La norma di riferimento è l’art. 9 della legge 898 del 1970, secondo cui:
- in mancanza di un coniuge superstite con i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge divorziato ha diritto alla pensione di reversibilità se non si è sposato di nuovo e se è titolare di assegno divorzile;
- in caso di concorso tra il coniuge superstite e un ex coniuge divorziato, sempre titolare di assegno divorzile, è il tribunale che attribuisce a quest’ultimo una quota della pensione tenendo conto di più variabili.
Non contenta della suddivisione delle quote, la prima moglie impugnò la decisione in appello, dove il giudice di secondo grado accolse parzialmente il suo reclamo e modificò le percentuali, alzando al 35% la quota spettante all’ex coniuge.
Alla luce della ricostruzione dei fatti di causa, in questa sede la magistratura ritenne che il criterio della durata delle prime e seconde nozze non dovesse essere esclusivo o prevalente, ma controbilanciato da valutazioni di carattere equitativo, tra cui i 13 anni di fidanzamento dell’ex coniuge con il pensionato deceduto e le condizioni economiche complessive delle parti, anche alla luce dell’importo dell’assegno divorzile ricevuto dalla prima moglie.
Per la Cassazione le quote di spettanza vanno ricalcolate dal mese successivo a quello della morte del pensionato
Insoddisfatta della pronuncia sulla decorrenza del diritto al versamento della reversibilità, fissata a partire dalla data di deposito del ricorso e non, come sostenevano i suoi legali, dal primo giorno del mese successivo alla morte dell’ex compagno, la prima moglie si rivolse alla Cassazione.
Proprio quest’ultimo punto è stato accolto dai giudici di piazza Cavour, che, con il sostegno di un precedente giurisprudenziale come la sentenza n. 2259/2013, hanno stabilito l’effettiva decorrenza del riparto delle quote di reversibilità come richiesto dalla moglie.
Da quella data andavano cioè (ri)calcolate le rispettive quote di spettanza alla prima e seconda moglie.
Cristalline le parole usate dalla Suprema Corte per definire la controversia. La sentenza che stabilisce le quote ha efficacia retroattiva (ex tunc) perché:
fa sorgere un diritto di natura previdenziale, al quale deve intendersi applicabile la relativa normativa previdenziale che espressamente prevede che il diritto alla pensione di reversibilità in favore dei superstiti abbia decorrenza dal primo giorno del mese successivo a quello in cui si è verificato il decesso dell’assicurato o del pensionato, e quindi il coniuge divorziato ha diritto alla corresponsione della quota di pensione di reversibilità, attribuitagli dalla sentenza pronunciata ex art. 9 della L.n.898/1970, con la decorrenza anzidetta.
Ricapitolando, la prima moglie aveva ottenuto in appello un incremento della sua quota di reversibilità, ma i magistrati avevano fatto decorrere la nuova somma soltanto dalla data del ricorso. La Suprema Corte ha accolto la sua impugnazione, riconoscendo il suo diritto a incassare la quota maggiorata fin dal mese successivo al decesso dell’ex marito.
Che cosa cambia
Con la pronuncia n. 23851/2025, la Cassazione ha spiegato che il diritto alla reversibilità è autonomo, previdenziale e distinto dai diritti di natura successoria o ereditaria.
Conseguentemente, l’Inps è il solo soggetto tenuto a effettuare i conteggi e a versare gli arretrati della pensione di reversibilità dal mese dopo la morte del pensionato, facendo valere i correttivi di equità nella suddivisione delle quote tra moglie divorziata e seconda moglie.
Ecco perché, in casi come questi, l’ex non deve chiedere nulla al coniuge superstite, andando a evitare possibili liti in tribunale in merito alla ripartizione dei soldi.
Altro punto interessante è che se l’ente previdenziale si rende conto di aver versato somme in eccesso al secondo coniuge, potrà recuperarle a titolo di indebito oggettivo, ai sensi dell’art. 2033 del Codice Civile.
Infine, ribadiamo che la ripartizione delle quote non è mai frutto di un’operazione matematica.
La giurisprudenza costante della Cassazione ha individuato più criteri orientativi e oltre alla durata del matrimonio (criterio principale), ci sono altri criteri come la situazione patrimoniale e reddituale attuale dei due aventi diritto, l’entità dell’assegno divorzile e altri elementi equitativi come l’eventuale presenza di figli o il contributo dato durante la convivenza alla carriera del defunto.