Il Ministero dell’Economia ha ufficializzato i tassi di perequazione delle pensioni per i prossimi due anni. L’aumento per adeguarsi all’inflazione 2024 sarà dello 0,8% a partire da gennaio 2025, mentre quello relativo al 2025 sarà dell’1,4% da gennaio 2026.
Ma secondo un’analisi della Cgil e dello Spi Cgil, questi incrementi sono “assolutamente insufficienti” e vengono erosi dalla tassazione. Con la perequazione all’1,4%, una pensione minima netta passerà da 616,67 a 619,79 euro nel 2026: appena 3,12 euro in più al mese. Per un assegno netto da 800 euro, l’aumento sarà di 9 euro mensili.
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I motivi del taglio
L’entità dell’aumento che arriva effettivamente in tasca al pensionato è determinata da due meccanismi che agiscono da filtro. Il primo è il sistema di perequazione a fasce, introdotto dalla legge Fornero, che non rivaluta uniformemente l’intero importo della pensione. L’adeguamento è completo solo per la quota di assegno fino a 4 volte il trattamento minimo (pari a 603,40 euro). Scende al 90% per la parte tra 4 e 5 volte il minimo, e al 75% per gli importi superiori. Questo sistema, di per sé, riduce la rivalutazione per le pensioni medio-alte.
Il secondo filtro, ancor più incisivo, è la tassazione. L’Irpef, con le relative addizionali regionali e comunali, comincia a applicarsi superata la “no tax area” di 8.500 euro di reddito annuo. Con l’aumento della pensione lorda, ci si può trovare a scivolare in uno scaglione Irpef superiore o a vedere aumentata la percentuale media di tassazione. In sostanza, parte dell’aumento nominale viene “ripreso” dal fisco.
Le simulazioni
Secondo l’analisi di Cgil e Spi, nel 2026 la rivalutazione lorda cumulata per effetto della sola perequazione sarà del 16,46%. Ma con la maggiore pressione fiscale, l’aumento netto per il pensionato è di gran lunga inferiore. Facendo alcuni esempi concreti:
- una pensione lorda di 800 euro nel 2022 passerà a 932 euro lordi nel 2026 (+16,46%), ma il netto crescerà solo da 757 a 850 euro, con un aumento reale del 12,27%;
- un assegno lordo di 1.000 euro salirà a 1.165 euro (+16,46%), ma il netto passerà da 898 a 1.014 euro (+12,93%);
- per un importo più elevata, da 2.000 euro lordi, si arriverà a 2.329 euro (+16,46%), con il netto che cresce da 1.591 a 1.824 euro (+14,68%).
In sintesi, come evidenziano i sindacati:
l’incremento lordo del +16,46% nella maggior parte dei casi si traduce in un aumento netto intorno al 12–13%. Ben sotto l’inflazione cumulata del periodo, segnando un distacco crescente tra aumento formale e capacità reale di spesa.
Il paradosso: chi ha contribuito di più riceve di meno
L’analisi solleva un ulteriore nodo critico, definendolo un “paradosso redistributivo“. Questo riguarda il rapporto tra bassi trattamenti previdenziali e prestazioni assistenziali (come l’Assegno Sociale) o pensioni minime integrate con maggiorazioni sociali. Le prestazioni di natura assistenziale sono solitamente esenti da imposizione fiscale, mentre quelle previdenziali superano spesso la soglia della no tax area e vengono tassate.
Può accadere quindi che un pensionato con una lunga carriera contributiva e un assegno alto si trovi con un importo inferiore a quello di chi percepisce una prestazione assistenziale. Ad esempio:
- un pensionato che riceve 384,62 euro, con un Assegno Sociale può arrivare a percepire 749,11 euro netti al mese, senza alcuna trattenuta fiscale;
- un altro, con un assegno di 692,31 euro, tra maggiorazioni e tasse arriva ad un netto di 710,47 euro, 38 euro in meno del primo caso, nonostante una storia contributiva più consistente;
- un assegno di 807,69 euro, senza diritto a maggiorazioni e con trattenute fiscali, arriva a 745,97 euro, 3 euro in meno rispetto al pensionato assistito.
In sostanza, dicono le sigle:
chi ha lavorato e contribuito di più può ritrovarsi con meno in tasca rispetto a chi percepisce una prestazione assistenziale, pur trovandosi entrambi in condizioni economiche di fragilità.