La fotografia del settore terziario non è di certo delle migliori. In estrema sintesi, infatti, i dati registrati da UILTuCS evidenziano un aumento della produttività. Al tempo stesso, però, gli stipendi sono calati in maniera evidente nel corso degli ultimi 10-12 anni. Un periodo positivo per le imprese, statistiche alla mano, con utili accumulati. I dipendenti invece non possono far altro che far sentire la propria voce al governo.
Stipendi in calo
Il settore terziario si è sviluppato indubbiamente dal 2010 al 2022. La produzione è aumentata ma non è migliorata la condizione dei lavoratori dipendenti. I salari hanno infatti subito un crollo dell’8%, in media. Da evidenziare, inoltre, una punta del -15% nell’ambito del commercio. Al tempo stesso, però, la produttività ha fatto registrare un considerevole +16,3%.
Scandagliando tra i dati pubblicati è possibile porre in evidenza quello che è stato l’andamento della contrattazione collettiva in Italia in questo lasso di tempo. Le dinamiche salariali, se confrontate con altri Paesi dell’Unione europea, risultano “problematiche”.
Nello specifico si parla di Spagna, Germania, Francia, Austria, Belgio, Svezia, Danimarca e Finlandia. Aree nelle quali la contrattazione va a coprire un’ampia maggioranza della forza lavoro.
Italia e resto d’Europa
Se si guarda alla media salariale, attestata sui 31.530 euro annui nel 2022, l’Italia occupa il penultimo posto in questa mini classifica, che comprende gli altri 8 Paesi citati. Oltre i nostri confini, infatti, la media prevede un ventaglio che va dai 41mila ai 62mila euro, circa. Fanalino di coda che spetta alla Spagna, indietro di poco più di mille euro rispetto a noi.
Differente il discorso per quanto riguarda la vicina Francia. Il distacco in questo caso è di circa 10mila euro, infatti. Stentiamo anche in merito alla crescita del salario lordo. Tra il 2010 e il 2022 abbiamo registrato un +13%. Peggio soltanto la Spagna con un +10%. I lavoratori iberici però hanno assistito, al tempo stesso, a una crescita del salario minimo legale del +58%.
Gli altri sette Paesi, invece, vedono nella Francia la crescita minima, pari a +23%, e nella Svezia quella massima, pari a +37%.
Come detto, però, la produttività ha fatto registrare un segno positivo. In Italia, eccezion fatta per l’agricoltura, buone notizie sotto questo aspetto da tutti i settori. La media nazionale è del +3,2% ma, selezionando unicamente l’ambito dei servizi, dai trasporti al turismo, dal commercio alla logistica, la cresciuta è del +7,8%.
Se poi dalla macrocategoria si estrapola la sezione specifica del commercio, il confronto con la media nazionale è imbarazzante: +16,3%. A fronte di stipendi rivisti al ribasso, si sottolinea anche una crescita del 44,9% del margine operativo lordo (Mol) delle imprese.
Le proposte
La Uil evidenzia l’integrazione del salario minimo legale in altri Paesi, come Belgio, Germania, Francia e Spagna. Il sistema convive in armonia con quella che è la necessaria contrattazione nazionale. Gli impatti negativi paventati dal governo di Giorgia Meloni, dunque, non hanno riscontri pratici altrove.
“Il salario minimo legale diventa uno strumento necessario di tutela, laddove la contrattazione collettiva e la rappresentatività sindacale si indeboliscono”. Da UILTuCS giungono le seguenti proposte:
- sostituire l’Ipca (indicatore del costo della vita) con un indicatore incentrato su un paniere che tenga conto dell’inflazione reale;
- necessità della vigenza del contratto nazionale a quattro anni;
- adeguamento del salario nazionale di settore all’inflazione su base biennale;
- meccanismo di recupero di una porzione dell’inflazione reale, in caso di mancato accordo e scostamento con il salario;
- gli accordi aziendali devono prevedere salari legati alla produttività e al suo eventuale incremento;
- assicurare la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del lavoro all’interno delle imprese, ai bilanci e a tutti i dati che consentono di determinare l’eventuale raggiungimento di obiettivi per l’erogazione dei premi;
- estendere e rafforzare forme di contrattazione territoriale, con ridistribuzione di quote della produttività.