Stesso lavoro, stipendi diversi: la Cassazione spiega perché si può

La giurisprudenza chiarisce: non esiste un diritto automatico a identico stipendio tra colleghi che fanno le stesse cose, salvo casi di discriminazione. Ecco che cosa sapere

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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In ufficio è facile cadere in confusione quando si parla di giusto compenso per le prestazioni svolte. In soccorso di aziende e dipendenti c’è ora una sentenza della Cassazione, la n. 17008 di quest’anno, che ha chiarito un punto molto importante per i rapporti di lavoro privati.

Nel diritto del lavoro del nostro Paese non esiste un principio generale che obblighi un’azienda a garantire la stessa retribuzione o lo stesso inquadramento a lavoratori che svolgono mansioni identiche (a meno che non ci siano motivi di discriminazione vietati dalla legge e dall’UE).

Potrebbe sembrare quasi una contraddizione in busta paga, ma così non è. Vediamo perché.

Il caso concreto e la bocciatura delle richieste del dipendente in tribunale

Nel caso per il quale la Cassazione era stata chiamata a pronunciari, il soggetto lavorante alle dipendenze di un’azienda lamentava, in sostanza, di essere stato pagato meno del dovuto, rispetto ad altri colleghi. Un uomo aveva così citato in tribunale il proprio datore al fine di conseguire il riconoscimento di un inquadramento maggiore rispetto a quello contrattualmente attribuito, con richiesta condanna dell’azienda:

  • alla ricostruzione del rapporto di lavoro, così come avrebbe dovuto essere secondo le sue richieste;
  • al versamento di tutte le differenze retributive nel frattempo maturate;
  • al risarcimento del danno esistenziale e da lesione all’immagine, alla professionalità e alla carriera.

Ebbene, sia in primo che in secondo grado il lavoratore ha fatto un buco nell’acqua, perché la magistratura gli ha negato il superiore inquadramento rivendicato, pur a parità di mansioni svolte. La corte d’appello evidenziava anche che il dipendente non aveva specificato il contenuto delle mansioni svolte in concreto e non le aveva confrontate con i profili e le mansioni proprie della più alta qualifica rivendicata, in base a quello che in gergo è il “giudizio trifasico”.

La Cassazione conferma la libertà di modulare lo stipendio a parità di mansioni

La Cassazione ha confermato l’esito del giudizio. Vero è che la stessa Costituzione tutela il salario dei lavoratori, all’art. 36, ma, attenzione, questo non vuol dire doverlo parificare con le busta paga dei colleghi, pur aventi le stesse mansioni. Non a caso, queste ultime vanno tenute distinte dalle “qualifiche”, come pure dall’esperienza più o meno ampia di un lavoratore.

La sentenza 17008/2025 ha così ricordato che esiste il principio di uguaglianza sostanziale di fronte alla legge. I datori, però, sono liberi di modulare la retribuzione come meglio credono all’interno di un rapporto di lavoro di ambito aziendale. Ciò vale anche a parità di attività svolte in ufficio.

In pratica, questo significa che un’azienda di qualsiasi tipo non è obbligata a versare lo stesso stipendio, così come a dare lo stesso livello contrattuale, a tutti i dipendenti che svolgono mansioni analoghe.

Anzi, differenze di salario possono esistere anche nello stesso reparto o ruolo, a patto che:

  • la retribuzione resti congrua e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato (criterio generale all’art. 36 Cost.);
  • non ci siano discriminazioni vietate dalla legge, ad es. per genere, età, razza, convinzioni personali o sindacali.

Ecco perché la Cassazione così chiarisce che la sola circostanza che determinate mansioni siano state in precedenza affidate a dipendenti, a cui il datore riconosceva una qualifica più alta, non ha importanza per il dipendente al quale, con diversa e inferiore qualifica, siano state affidate proprio quelle attività. Quest’ultimo non potrà cioè rivendicare un diritto automatico a più soldi di stipendio, basandosi soltanto su questo “paragone”.

Quando la contestazione del dipendente può avere successo

Tuttavia, l’orientamento generale della Cassazione non impedisce ogni tipo di contestazione da parte del dipendente che, per ottenere un miglior trattamento economico in busta paga, dovrebbe però dimostrare in tribunale che l’inquadramento assegnato non si collega alle effettive mansioni svolte, in violazione del principio di corrispondenza di cui all’art. 2103 del Codice civile.

In alternativa, dovrebbe dimostrare la presenza di una discriminazione fondata su motivi (sesso, religione, età, opinioni politiche, iscrizione a un sindacato ecc.) tutelati dalla legge e, in particolare, dal Codice delle pari opportunità e dal d. lgs. 216/2003.

Il ruolo del legislatore europeo

In questo contesto si cala la nuova direttiva UE 2023/970, recepita in Italia proprio quest’anno. Il testo riguarda la parità di retribuzione tra uomini e donne e la trasparenza salariale e, in particolare, stabilisce che:

  • tutti gli stati membri devono garantire uguaglianza di stipendio al di là del sesso;
  • le aziende devono dare informazioni trasparenti sulle retribuzioni, anche alla data dell’assunzione;
  • i dipendenti devono poter accedere ai dati salariali medi per categoria e livello;
  • scattano sanzioni e risarcimenti in ipotesi di discriminazioni salariali di genere.

Ma attenzione: va sottolineato che la direttiva non impone, in generale, una retribuzione uguale per tutti i lavoratori che svolgono le stesse mansioni. Infatti, il vincolo scatta soltanto se la differenza retributiva si rivela basata sul sesso, o su altri elementi vietati dalle regole nazionali.

È importante capire che, nonostante possano sembrare in contrasto, la sentenza della Cassazione e la direttiva UE operano su ambiti distinti. Quindi non sono in contraddizione tra loro. Infatti:

  • la Cassazione ha preso parola su rapporti di lavoro aziendali e senza elementi discriminatori, ribadendo la libertà del datore di lavoro di differenziare discrezionalmente l’importo della busta paga per stesse mansioni, in assenza di violazioni di legge;
  • la direttiva UE fissa il principio di parità di trattamento stipendiale in chiave antidiscriminatoria, con specifico riferimento al genere.

Che cosa cambia

La sentenza n. 17008 della Cassazione ha stabilito che nel nostro ordinamento non esiste alcun principio, di rango costituzionale o di legge dello Stato, che imponga alle aziende di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i dipendenti svolgenti le medesime mansioni.

In altre parole, non esiste un diritto generale e automatico a prendere gli stessi soldi di un collega che in ufficio fa le stesse cose, ma – qualora sia effettivamente accertata – ogni differenza retributiva basata sul sesso, o altri motivi vietati, è illegale e va sanzionata.

Ad es. un’impiegata junior che gestisce le stesse pratiche di un collega più esperto non potrà automaticamente pretendere lo stesso stipendio; oppure, due addetti alla contabilità nello stesso reparto possono ricevere compensi diversi in busta paga, a patto che le differenze siano giustificate da esperienza, anzianità o altri criteri legittimi e non discriminatori.

Concludendo, la legge tutela la congruità della retribuzione e vieta discriminazioni, ma non impone un confronto economico automatico tra colleghi, lasciando – anzi – pieno spazio alla discrezionalità del datore di lavoro, entro i limiti della regole vigenti.