I permessi studio per l’università possono essere negati se l’ateneo è online

Chi studia in università telematica ha diritto ai permessi retribuiti solo se prova la coincidenza con l’orario di lavoro

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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La Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata su un argomento di sicuro interesse per i lavoratori, considerato il boom che stanno avendo le università telematiche negli ultimi anni. La domanda è ricorrente: si possono usare i permessi retribuiti per motivi di studio, in caso di iscrizione ad atenei di questo tipo?

Ebbene, con la decisione n. 25038 dello scorso 11 settembre, la Suprema Corte sezione Lavoro ha considerato un caso pratico riferito al pubblico impiego. Ha chiarito in modo netto che i dipendenti pubblici possono beneficiare di questi specifici permessi soltanto se sono in grado di provare di aver seguito le lezioni in orari coincidenti con il proprio orario di servizio.

La pronuncia in oggetto, oltre a chiudere la disputa tra le parti, ha il pregio di fare luce su una questione su cui possono facilmente aversi interpretazioni divergenti tra amministrazioni e dipendenti.

Il caso finito in tribunale

La vicenda nasce dal ricorso di quattro dipendenti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Dopo aver scelto di iscriversi a un’università telematica per conciliare la volontà di formarsi con gli obblighi lavorativi, avevano chiesto di poter sfruttare i permessi studio previsti dall’art. 48 del Ccnl Comparto Agenzie Fiscali.

Inizialmente, la Pubblica Amministrazione si oppose affermando che, a differenza degli studenti delle università tradizionali, chi frequenta un ateneo tramite connessione internet e pc, non ha vincoli di orario e può organizzare liberamente la visione delle lezioni, anche al di fuori dell’orario di servizio negli uffici dell’Agenzia.

I lavoratori non accettarono però questa posizione, tanto da impugnare il rifiuto presso il giudice del lavoro che, in primo grado, accolse la loro domanda. Il tribunale evidenziò che, dalla disciplina contrattuale e da una circolare ministeriale di alcuni anni fa, si può desumere il diritto dei dipendenti a godere dei permessi retribuiti.

La disputa con il datore di lavoro pubblico proseguì in appello, ma anche qui l’esito non mutò. Il giudizio di merito confermava che diritto allo studio andava garantito in senso ampio e senza particolari limiti.

In sostanza, i due giudici concordavano sul fatto che agli studenti delle università digitali, oggi presenti in gran numero e con un’offerta molto ricca e varia, dovesse essere concesso il permesso retribuito, senza alcun obbligo di provare che la frequenza non potesse aversi in altri momenti della giornata.

Serve la prova della coincidenza con l’orario di lavoro

L’Agenzia delle Dogane non si arrese all’esito dei primi due gradi di giudizio e fece ricorso in Cassazione, sostenendo che il godimento dei permessi studio retribuiti presupponesse la comunanza tra le ore di lavoro e quelle di lezione. E la scelta si rivelò azzeccata perché i giudici di piazza Cavour ribaltarono l’orientamento dell’appello, accogliendo in sostanza il punto di vista dell’ente pubblico.

C’è un punto chiave che consente di capire il cambio di rotta. La normativa di riferimento, e in particolare l’art. 46 del Ccnl Funzioni Centrali 2016-2018, impone al dipendente pubblico di presentare una documentazione idonea a provare la partecipazione effettiva ai corsi nelle ore e nei giorni in cui non si è andati in ufficio.

Non solo. Sulla scorta di una giurisprudenza già delineata in materia e richiamata nella stessa decisione n. 25038 (in particolare Cass. n. 10344/2008 e n. 17128/2013), la Corte ha ricordato che i permessi retribuiti per motivi di studio non servono a coprire il tempo dedicato allo studio personale o ad attività complementari, ma esclusivamente le ore in cui il lavoratore è effettivamente assente dal servizio per seguire le spiegazioni dei docenti su schermo.

Il ruolo della certificazione dell’università telematica

La Corte tiene a precisare che, non essendo obbligato a partecipare necessariamente alle lezioni in orari rigidi, come avviene invece nelle università classiche, il dipendente pubblico potrebbe sempre scegliere orari di collegamento compatibili con l’orario di lavoro nell’ente.

In breve, se il permesso serve a giustificare l’assenza dal servizio, questa assenza va documentata con una dichiarazione o certificazione dell’autorità scolastica o universitaria che attesti la partecipazione ai corsi per le ore di lavoro non prestate sino alla concorrenza di 150 ore.

La conclusione, come già detto, rispecchia l’art. 46 del Ccnl Funzioni Centrali, per il quale:

Ai dipendenti sono concessi – in aggiunta alle attività formative programmate dall’amministrazione – permessi retribuiti, nella misura massima individuale di 150 ore per ciascun anno solare e nel limite massimo, arrotondato all’unità superiore, del 3% del personale in servizio a tempo indeterminato presso ciascuna amministrazione, all’inizio di ogni anno. Le amministrazioni articolate sul territorio provvedono a ripartire il contingente di personale di cui al presente comma tra le varie sedi.

Ricapitolando, per la Corte chi può seguire le lezioni in qualunque momento non può pretendere di assentarsi dal lavoro, se non prova che quella specifica attività didattica era effettivamente vincolata a un orario preciso.

Lezioni flessibili: niente automatismi nei permessi

Quello dei permessi lavorativi è sempre un tema delicato, come dimostrano varie recenti sentenze tra cui ad esempio quella sull’assistenza notturna al familiare o quella sull’abuso permessi sindacali.

Il cuore di questa decisione della Cassazione, che mira al bilanciamento tra diritto allo studio e esigenze del servizio pubblico, sta nel diverso modo di funzionare delle università telematiche rispetto a quelle tradizionali. Le lezioni online sono tipicamente erogate in modalità asincrona, cioè registrate e fruibili in qualsiasi momento. In questo caso, secondo la Corte, non esiste un vincolo orario oggettivo che giustifichi l’assenza.

Perciò non è sufficiente l’iscrizione a un corso web per avere diritto ai permessi studio. Il lavoratore pubblico deve sempre dimostrare che la lezione seguita online si è svolta in un orario preciso, e coincidente con quello di lavoro. Altrimenti è costretto a sostenere il doppio orario nell’ufficio e di lezione, con evidente aumento del carico di attività lavorative ed extra-lavorative.

Nella pronuncia, di orientamento per la generalità delle amministrazioni pubbliche, si spiega anche che, in mancanza di questa prova, i permessi studio vanno considerati aspettativa per motivi personali, cioè non retribuiti.

Concludendo, con questa sentenza destinata a fare scuola, la Corte ha sottolineato anche un punto di equilibrio. Il diritto allo studio resta pienamente tutelato, ma non può essere esercitato in modo arbitrario o discrezionale. Se per gli studenti delle università tradizionali la coincidenza di orari è “naturale” (le lezioni si tengono a orari fissi), per chi frequenta un’università telematica la flessibilità diventa un vantaggio, ma anche una responsabilità.