Permessi sindacali, a rischio il contratto di lavoro in caso di abuso: la sentenza

Il dipendente, e rappresentante sindacale, che non rispetta gli obblighi legati al permesso sindacale, si espone alla perdita del posto. La Cassazione lo conferma

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 30 Novembre 2024 15:00

Come testimoniano i numerosi casi in tribunale, i permessi utilizzati dai lavoratori sono spesso fonte di dispute giudiziarie con aziende e datori. Per studio, malattia, morte o grave infermità di un familiare, per usufruire dei benefici della legge 104 e non solo: i permessi sono disciplinati dalla legge e dai singoli Ccnl e – conseguentemente – il dipendente farà bene a leggere con attenzione il proprio contratto, per essere al corrente delle condizioni a cui sono sottoposti i periodi di assenza durante l’orario di lavoro.

Tra queste agevolazioni troviamo anche i permessi per svolgere attività sindacale, i quali – però – debbono essere sfruttati entro limiti ben precisi, senza sforare in un vero e proprio abuso. Di seguito parleremo di un recente caso affrontato dalla Cassazione – sezione Lavoro – e deciso con l’ordinanza n. 29135 di alcuni giorni fa. Ecco cosa sapere per evitare guai con il datore di lavoro e il licenziamento per giusta causa.

La vicenda in sintesi

Ogni permesso lavorativo è concesso per svolgere la funzione e per cogliere l’obiettivo, a cui quella specifica interruzione nell’orario di lavoro è mirata. In linea generale deroghe non sono concesse – ed emblematico è il caso dei permessi per assistere familiari disabili che, se violati, possono costare il posto di lavoro.

Nella vicenda che qui interessa, tramite il servizio di un’agenzia investigativa, un dipendente – con funzioni di rappresentante sindacale – era stato “beccato” fuori regione e a svolgere attività legate a motivi personali e familiari, che nulla avevano a che vedere con la finalità del permesso sindacale in precedenza accordato.

Come vedremo meglio tra poco, nel corso dell’iter giudiziario che ha portato fino al ricorso in Cassazione, era stato effettivamente accertato che l’uomo, pur avendo espressamente richiesto permessi per attività sindacali riferiti a due giornate, non aveva speso neanche un’ora in riunioni o altre attività collegate – integrando un abuso dell’agevolazione.

Ne era seguito il licenziamento in tronco (e senza preavviso) per il venir meno dell’elemento della fiducia nel rapporto di lavoro.

Il percorso giudiziario

Contro la massima sanzione disciplinare, il dipendente scelse di portare il datore di lavoro in tribunale, lamentando tra l’altro la violazione di alcuni articoli dello Statuto dei lavoratori in tema di permessi, ma anche la mancata comunicazione dei motivi del recesso unilaterale.

Tuttavia, il giudice incaricato confermò la bontà della scelta aziendale, bocciando la richiesta di reintegro al lavoro e di pagamento dell’indennità risarcitoria.

Una seconda impugnazione – questa volta della decisione di primo grado – non bastò al dipendente per veder ribaltata la sua posizione in merito all’asserito abuso dei permessi sindacali. In appello, infatti, il magistrato ribadì le conclusioni del tribunale – ponendo l’accento sulla gravità di un comportamento ingannevole e sleale e sulla proporzionalità della sanzione applicata, rispetto alla violazione accertata. Inoltre il secondo grado confermò la correttezza dei controlli effettuati tramite investigatore privato.

Come si può leggere nel testo dell’ordinanza della Corte, che richiama i fatti anteriori e l’iter giudiziario fino a quel momento, il dipendente licenziato fece poi ricorso in Cassazione, lamentando nuovamente l’erronea applicazione delle regole sui permessi sindacali oltre che violazioni procedurali, vale a dire elementi che – secondo la difesa dell’uomo – avrebbero potuto portare al ribaltamento della situazione a suo favore.

La Cassazione conferma le decisioni di tribunale e appello

Altro buco nell’acqua presso i giudici di piazza Cavour, visto che il ricorso del lavoratore e rappresentante sindacale è stato respinto, perché – in sostanza – le precedenti decisioni del giudice di merito, dopo l’attento vaglio della Suprema Corte, sono emerse come del tutto corrette dal punto di vista tecnico-giuridico.

Nessuna violazione procedurale, né una qualche sbagliata interpretazione di norme rilevanti per il caso della violazione dei permessi sindacali. Come detto, il dipendente – con la “scusa” del permesso sindacale retribuito – aveva usato le ore libere per motivi familiari e strettamente privati, di fatto integrando una palese violazione delle comuni regole di diligenza, buona fede contrattuale e correttezza nei rapporti di lavoro e di cui si ha puntuale disciplina nel Codice Civile.

Riconoscendo la correttezza del ragionamento del giudice di merito, la Cassazione (richiamando peraltro la sua precedente decisione n. 34739 del 2019) ha così specificato che nel caso concreto:

si è avuto lo sviamento dall’interesse sotteso (la tutela dei diritti sindacali da parte di un dirigente sindacale provinciale), poiché l’istituto è stato adoperato per meri interessi personali e individuali.

In estrema sintesi, la gravità dell’abuso compiuto dal lavoratore fondava il licenziamento per giusta causa: l’uso improprio di permessi sindacali infatti danneggia irreparabilmente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro.

Nessuna violazione della privacy del dipendente

Non solo. Nel ricorso l’uomo aveva anche provato a smontare le accuse aziendali, sostenendo che l’utilizzo di un investigatore privato avrebbe leso la sua sfera della privacy. Anche sotto questo punto di vista, il giudice di legittimità ha smentito le sue difese, affermando che il controllo delle attività del dipendente in permesso era stato svolti in spazi pubblici e non privati e che era:

finalizzato ad accertare le cause effettive della richiesta di premessi sindacali (Cass. n. 6174/2019)

Pertanto anche sul piano delle regole in tema di riservatezza, non si era palesata alcuna violazione da parte del datore, anzi confermandosi la responsabilità disciplinare del dipendente beneficiario del permesso sindacale.

Che cosa cambia

Con questa vicenda per il lavoratore e rappresentante sindacale è cambiata definitivamente la sua posizione. La giustizia ha infatti confermato il licenziamento senza ulteriore possibilità di contestazione. Quest’ultimo è stato infatti considerato proporzionato, non trattandosi di una semplice assenza ingiustificata, ma di una violazione rilevante delle condizioni che disciplinano i permessi sindacali.

La Cassazione ha così stabilito l’assenza di una violazione della privacy e la compromissione irreparabile del rapporto di fiducia – derivante dall’abuso dei permessi. Ecco perché la Corte, richiamando un suo precedente (sentenza n. 11759 del 2003), ha colto l’occasione per ricordare che, pur avendo il diritto al permesso natura di diritto potestativo:

allo stesso datore di lavoro spetta il diritto al controllo per accertare l‘effettiva partecipazione dei sindacalisti, fruitori di tali permessi, alle riunioni degli organi direttivi, nazionali o provinciali.

Secondo i giudici di legittimità, questo controllo può legittimamente essere attuato anche con un’agenzia di investigazione e perciò l’ordinanza n. 29135 funge da ulteriore monito per i lavoratori “tentati” dall’uso personale dei permessi, in questo caso di ambito sindacale (e proprio su questi permessi è interessante anche un altro recente caso). Il rischio concreto è infatti quello di perdere il posto con un licenziamento del tutto corretto e legittimo.