350 km al giorno per mobbing, dipendente vince contro Inail e viene risarcito

Se l'Inail si oppone alla richiesta di indennizzo per atti persecutori in ufficio, è possibile ottenere giustizia in tribunale. Un recente caso lo conferma

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 15 Dicembre 2024 19:00

I casi giudiziari che riguardano atti persecutori nel lavoro sono innumerevoli. Chi finisce nel bersaglio di gesti offensivi e lesivi della dignità morale, oltre che dell’equilibrio psicofisico, si ritrova isolato dal resto dei colleghi e molto meno motivato nello svolgere le mansioni contrattuali. Le calunnie, gli insulti, le esclusioni da riunioni, le minacce di sanzioni disciplinari, le critiche infondate, l’imposizione di carichi di lavoro impossibili da gestire o di scadenze irrealistiche sono soltanto alcuni esempi pratici, con cui il mobbing può manifestarsi in ufficio.

In circostanze come queste il rimedio da utilizzare è l’azione giudiziaria. Con la raccolta di tutti gli elementi utili alla decisione e tramite prove inconfutabili, il dipendente perseguitato e “mobbizzato” potrà ottenere un congruo risarcimento o indennizzo.

E così è stato per un lavoratore subordinato, costretto a farsi giornalmente centinaia di km di strada per raggiungere il posto di lavoro. Un pendolarismo forzato perché espressione, appunto, di mobbing e di vessazione da parte dei superiori. Vediamo insieme la vicenda e la decisione giudiziaria, che ha visto il lavoratore prevalere contro l’Inail.

La vicenda concreta e i distinti episodi di mobbing

Emarginato e costretto a viaggiare per ore, ogni giorno. 350km, tra andata e ritorno, non sono stati affatto pochi per un dipendente di una cooperativa di servizi di manutenzione in un ospedale di Lido di Camaiore, in Toscana.

Al ritorno in ufficio dopo una malattia, all’uomo fu comunicato lo spostamento ad Arezzo. Il problema era che al mattino avrebbe dovuto andare all’ospedale dove aveva lavorato fino a quel momento – per timbrare – e poi avrebbe dovuto prendere il furgone della cooperativa, guidando fino a raggiungere la struttura sanitaria aretina di assegnazione. Alla sera, il ritorno a Lido di Camaiore.

Un pendolarismo ingiustificato, “spia” di un caso di vero e proprio mobbing ma – a ben vedere – il quadro persecutorio era più ampio. Oltre allo spostamento in oggetto, sicuramente l’aspetto più gravoso della situazione, l’uomo fu anche il bersaglio di gesti di scherno dei colleghi e il solo a essere messo in cassa integrazione a zero ore per svariate settimane, senza essere coinvolto nei corsi di formazione periodici previsti per gli altri dipendenti.

Evidentemente logorato da una situazione che perdurava da troppo tempo – basti pensare che il pendolarismo forzato ad Arezzo ebbe inizio nel 2016 – il dipendente della cooperativa decise di fare causa all’Inail, per veder quest’ultima finalmente costretta a versare un indennizzo per danno da mobbing.

Il precedente giudiziario e il rifiuto dell’indennità Inail

In verità, già prima del 2016, l’uomo iniziò a subire atti vessatori e lesivi. Infatti, dopo una non breve malattia dovuta proprio allo stress per l’ambiente di lavoro, era stato prima licenziato e poi – nel 2021 – reintegrato dal tribunale, ricevendo 10mila euro di risarcimento. Ora la seconda causa, vinta contro l’Inail.

In effetti l’istituto offre tutela contro i casi di mobbing, a condizione che sia dimostrato il rapporto di causalità tra il comportamento offensivo e il danno patito a livello psico-fisico (ansia, depressione, disturbi cardiovascolari ecc.). Sostanzialmente, il disturbo di salute deve essere il risultato di reiterati comportamenti discriminatori e offensivi, per cui – in assenza di questi ultimi – il dipendente non avrebbe avuto problemi a livello psico-fisico.

E Inail, almeno all’inizio, negò il diritto al risarcimento del dipendente “mobbizzato”, non individuando elementi per giustificare l’indennizzo.

La seconda causa e la prova del danno subìto

Nell’aula giudiziaria toscana la situazione si ribaltò, con un provvedimento che ha riconosciuto il diritto del lavoratore a ricevere un ristoro per quanto subito e respinto le argomentazioni dell’istituto, sul rifiuto alla liquidazione di quanto chiesto dal dipendente.

In particolare, la consulente tecnica nominata dal tribunale ha accertato la presenza di:

  • un danno biologico quantificato al 20% per disturbo dell’adattamento con ansia e depressione;
  • un nesso di causalità tra l’insorgenza del disturbo dell’adattamento e i gesti persecutori dei colleghi e dei superiori.

Ricostruire la realtà dei fatti e come sono andate le cose, non è stato affatto facile. Il giudice incaricato di decidere sul caso ha infatti scritto negli atti che si è trovato a verbalizzare moltissimi “non ricordo”, detti a voce dai colleghi di lavoro chiamati a testimoniare su quanto emerso in corso di causa. Un clima di indifferenza misto a omertà e alla paura di perdere il posto ha caratterizzato il processo, in cui però la cooperativa è stata inchiodata alle sue colpe.

Ecco perché più facilmente si comprende l’iniziale posizione negativa di Inail, in merito al riconoscimento dell’indennità. Mancavano testimonianze chiave e i documenti presentati dall’uomo, evidentemente, non erano bastati a convincere l’istituto a versare i soldi. Serviva, insomma, un’indagine più profonda e articolata sui fatti narrati dal dipendente versiliese e proprio l’iter presso il giudice del lavoro ha permesso di fare piena chiarezza.

Non a caso, tra i comportamenti ingiustificati, nella sentenza che ha riconosciuto l’indennizzo Inail sono citati anche quelli nella sentenza del 2021, in virtù della quale il lavoratore rientrò in azienda dopo essere stato bersaglio di gesti di emarginazione.

Il rilievo chiave del trasferimento ingiustificato

Proprio lo spostamento ad Arezzo ha avuto un’importanza determinante nell’accertare la fondatezza delle richieste dell’uomo. All’epoca infatti il trasferimento avvenne in parallelo all’assunzione di altro personale nel luogo in cui lavorava a Lido di Camaiore, rendendo evidente che avrebbe potuto restare lì.

Non solo. Se in un primo tempo, la cooperativa gli aveva fornito un suo furgone per spostarsi, successivamente gli pagò le spese con vitto e alloggio ad Arezzo. Un supporto economico che però, in breve tempo, non gli fu più accordato, costringendolo a pagare da sé i costi della permanenza nella località.

La goccia che fece traboccare il vaso fu l’imposizione del trasferimento definitivo, che aveva creato nell’uomo uno stato di profonda depressione, accertata nell’ambito della consulenza tecnica disposta dal tribunale. Ecco allora spiegata la sentenza del giudice del lavoro, che ha stabilito l’obbligo di indennizzo Inail per mobbing.

Che cosa cambia

Abbiamo visto che l’Inail è tenuta ad indennizzare anche la malattia causata dalla condotta vessatoria del datore di lavoro. In sostanza la tutela assicurativa offerta dall’istituto vale anche contro il mobbing, per dare sollievo in presenza di problemi di salute o burnout, causati da un ambiente di lavoro “tossico”. Lo ha già chiarito la Corte di Cassazione: basti pensare all’ordinanza n. 8948 del 2020, che evidenzia proprio il collegamento tra atti persecutori e indennizzo Inail.

Per il dipendente è cambiata la prospettiva in modo favorevole, ricevendo una ulteriore tutela economica. Dal mobbing infatti ci si può difendere. Mentre, in generale, per gli ambienti di lavoro un provvedimento di questo tipo dovrebbe sollecitare a modificare alcuni comportamenti che, se protratti nel tempo, potrebbero essere spia evidente di mobbing e giustificare iniziative giudiziarie della vittima.