Con la pronuncia n. 29809 del 12 novembre scorso, la Corte di Cassazione è intervenuta su un tema da non sottovalutare e potenzialmente fonte di attrito in azienda: l’assistenza sindacale dei lavoratori nelle conciliazioni e la responsabilità del datore, anche quando quest’ultimo agisce seguendo le indicazioni della propria associazione datoriale.
La Sezione Lavoro della Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’organizzazione sindacale dei lavoratori, riconoscendo un comportamento antisindacale nelle procedure conciliative e, come tale, lesivo dei diritti dei dipendenti. Conseguentemente, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello capitolina, azzerando le conclusioni cui la magistratura era giunta fino a quel momento.
Vediamo da vicino questa pronuncia e comprendiamo perché ha una portata generale che investe non soltanto il singolo caso, ma l’intero equilibrio delle relazioni industriali. E cogliamo anche l’occasione per chiarire limiti e responsabilità datoriali ogni volta che l’assistenza sindacale viene ostacolata, direttamente o indirettamente, anche per effetto di decisioni delle associazioni datoriali.
Indice
Il caso concreto, l’asserita condotta antisindacale e l’esito del giudizio di merito
Come indicato nella decisione della Cassazione, che ricapitola gli accertati fatti di causa, un sindacato aveva agito ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300/1970), nell’interesse dei lavoratori iscritti e rappresentati. L’associazione denunciava la condotta della società datrice, nelle conciliazioni relative agli accordi di esodo collettivo e all’accesso all’isopensione.
In alcune sedi dell’associazione datoriale ai lavoratori era stato negato o impedito di farsi assistere dal proprio sindacato, nella fase di sottoscrizione dei verbali conciliativi. La Cassazione riportava che il datore, una nota società operante nel settore delle telecomunicazioni, avrebbe chiesto ai dipendenti di scegliere un altro sindacato oppure di accettare quello indicato dalla società, rendendo di fatto impossibile l’intervento del sindacato ricorrente.
In alcune situazioni, per consentire ai dipendenti di ottenere l’assistenza del proprio sindacato, si era dovuto procedere alla conciliazione in un’altra sede territoriale, con il supporto di una diversa associazione datoriale rispetto a quella originaria. Tuttavia, questa soluzione non era stata garantita a tutti.
In appello, la causa in merito all’accertamento della condotta antisindacale si concludeva con la bocciatura del ricorso dell’associazione dei lavoratori. Infatti, il giudice di merito aveva accertato che:
- l’opposizione all’assistenza del sindacato dei lavoratori non dipendeva dalla società datrice, ma dall’associazione alla quale essa aderiva;
- non si poteva obbligare il datore di lavoro a fare pressioni sulla propria associazione datoriale;
- per alcuni aspetti squisitamente procedurali, non era possibile “aggirare” il problema semplicemente cambiando sede di conciliazione.
I motivi del ricorso in Cassazione
Il sindacato, che aveva originariamente agito in tribunale, proponeva ricorso alla Suprema Corte. In particolare, l’associazione sosteneva che il giudice d’appello avesse erroneamente applicato l’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori ed escluso che la condotta dell’associazione datoriale fosse imputabile anche alla società datrice. Proprio quest’ultima, infatti, l’aveva attuata.
Inoltre, secondo l’associazione dei lavoratori, c’era stata una errata qualificazione del ruolo dell’associazione datoriale nelle conciliazioni. Quest’ultima, infatti, non era parte del contratto di transazione, poiché le parti al tavolo erano soltanto datore di lavoro e dipendenti. In termini pratici, il “no” dell’associazione datoriale non poteva —quindi — impedire alla società di consentire l’assistenza del sindacato dei dipendenti.
La decisione della Suprema Corte chiarisce il perché della condotta antisindacale
Con l’ordinanza n. 29809, i giudici di piazza Cavour sono giunti a una decisione che ribalta completamente la sentenza di secondo grado. Sintetizzando i punti chiave, al fine di dichiarare una condotta antisindacale è sufficiente:
- l’idoneità oggettiva a danneggiare l’attività del sindacato;
- che la condotta dell’azienda abbia anche solo potenzialmente la capacità di ledere attività e libertà sindacale.
Invece, non rilevano il dolo, la colpa o la consapevolezza del datore di lavoro.
Pertanto, ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, il datore di lavoro è tenuto a rispondere della violazione di legge, anche quando questa è, di fatto, frutto dell’orientamento della propria sigla associativa. La Corte ha coerentemente accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla corte d’appello di Roma. Quest’ultima — in diversa composizione — dovrà decidere sulla lite, attenendosi ai principi giuridici espressi nella pronuncia n. 29809.
Che cosa cambia
Come già in un recente caso riguardante uno sciopero, la decisione della Cassazione dà un messaggio giurisprudenziale destinato ad avere effetti concreti e diretti, nelle relazioni di lavoro. Infatti, anche quando alla base del problema ci sono contrasti tra associazioni datoriali e sindacati dei lavoratori, l’azienda non può sottrarsi alle proprie responsabilità.
Se, in concreto, il datore adotta una scelta — o segue una linea dettata dalla propria associazione di categoria — che produce l’effetto di impedire ai dipendenti di farsi assistere dal proprio sindacato, quella condotta è comunque antisindacale, indipendentemente da chi ne abbia ispirato l’origine, dall’eventuale intenzione lesiva e persino dal fatto che il lavoratore riesca comunque a conciliare.
In altre parole, le tensioni tra organizzazioni sindacali non possono mai tradursi in una limitazione dei diritti individuali e collettivi dei dipendenti. Nelle conciliazioni individuali, le parti del contratto sono solo datore e lavoratore, mentre il sindacato svolge una funzione di assistenza. Non è parte dell’accordo. Perciò, l’associazione datoriale non ha alcun potere di mettere fuori gioco un sindacato. E la società non può scaricare su di essa la responsabilità delle proprie azioni. Anzi, dovrà rispondere della violazione di legge commessa.
Concludendo, si comprende facilmente che le conclusioni della Cassazione sono molto importanti per una pluralità di casi simili. Suggeriscono come non comportarsi al fine di evitare contenziosi presso il giudice del lavoro. Come visto sopra, la responsabilità del datore è sempre diretta. Non può essere trasferita, attenuata o giustificata da dinamiche interne al sistema delle rappresentanze. Anche quando agisce su indicazione di un organismo esterno, la società risponderà degli effetti che quelle indicazioni producono sulla libertà sindacale dei dipendenti.