Creare un’economia circolare per via delle risorse scarse, ovvero eliminare il concetto di fine vita di un prodotto, sviluppare un nuovo sistema alimentare, ridurre la carbon footprint, preservare la biodiversità sono azioni che danno vigore al concetto di “sviluppo sostenibile”, contribuendo a ridurre l’impatto ambientale negativo determinato dall’uomo.
Indice
Green communication e l’era del Brand sostenibile
La sempre più crescente sensibilità del Consumatore nei confronti delle tematiche inerenti la sostenibilità e l’attenzione sempre più viva verso le componenti di un prodotto, il suo packaging, le attività sociali di un Brand, alimenta un tipo di comunicazione che si definisce green communication.
Sempre più frequentemente, soprattutto da parte delle nuove generazioni, l’attenzione all’ambiente è un fattore che ha un ruolo determinante, anche nelle scelte di acquisto e che va a premiare i Brand che si occupano maggiormente di sostenibilità.
La comunicazione da parte dei Brand, quindi, non si basa più solo su fattori come uso di particolari materiali, creatività e manodopera, ma viene arricchita da elementi che raccontano i valori dell’azienda, attraverso messaggi emozionali che hanno come oggetto i valori di sostenibilità, che l’azienda promuove e che vuole trasmettere ai suoi Consumatori, aumentando così la brand awareness.
L’azienda e la sua comunicazione diventano emotivamente responsabili e sostenibili, ma deve esistere un reale impegno per il futuro, con interventi tracciabili e trasparenti. Deve emergere realmente un brand activism.
L’etica, l’attenzione al sociale e l’essere realmente sostenibili dovrebbero diventare gli asset centrali di tutti i progetti post pandemia.
Il Greenwashing, dark side della green communication
Il rischio che si corre e che si è corso in un passato sufficientemente recente, però, è quello di dar vita al dark side della green communication o del green marketing, ovvero il Greenwashing (leggi qui l’intervista), la mistificazione di comportamenti di impatto sostenibile con il solo scopo di autoproclamarsi sensibili, attenti e attivi nei confronti delle tematiche ambientali.
Il fenomeno del Greenwashing è già presente negli anni Novanta quando grandi aziende americane chimico-petrolifere, come ad esempio Chevron o DuPont, cercarono di spacciarsi come eco-friendly proprio per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica e dall’inquinamento che stavano causando.
Da questo fatto nacque il termine Greenwashing: un neologismo composto dalle parole green (ecologico) e whitewash (insabbiare, nascondere qualcosa).
Il Greenwashing è legale?
Il 28 gennaio 2021 la Commissione europea e le Autorità nazionali di tutela dei consumatori di cui al Regolamento (UE) 2017/2394 – per l’Italia il Ministero dello sviluppo economico – Direzione Generale per il Mercato, la concorrenza, il Consumatore, la Vigilanza e la Normativa Tecnica -, congiuntamente ad altre Autorità internazionali, sotto il coordinamento della IPCEN (Consumer Protection and Enforcement Network), hanno condotto per la prima volta un’indagine approfondita sulla pratica del Greenwashing. Attraverso uno screening dei siti web e di quanto affermato dalle aziende che proclamano di svolgere attività a tutela dell’ambiente si è giunti a risultati poco confortanti.
In oltre la metà dei casi l’azienda non aveva fornito ai consumatori informazioni e dati sufficienti per valutare la veridicità dell’affermazione. Nel 37 % l’affermazione conteneva formulazioni vaghe e generiche e nel 59 % dei casi non venivano fornite prove a sostegno delle affermazioni.
Complessivamente nel 42% dei casi le Autorità hanno ritenuto ingannevoli e non veritiere le affermazioni, considerandole pratiche commerciali sleali, ai sensi della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali.
Nell’ordinamento italiano, sino al 2014, mancava totalmente una normativa ad hoc che tutelasse il consumatore dal fenomeno del Greenwashing.
Nel 2014, infatti, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato la 58ma edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, introducendo per la prima volta, l’abuso di dichiarazioni che richiamano la sostenibilità ambientale “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono” (art.12).
La norma impone criteri di trasparenza e standard di correttezza nell’ambito della “comunicazione verde” ed ha introdotto il vincolo di verificabilità scientifica delle dichiarazioni.
Successivamente, nel 2015, è stata varata la L. 221 sulla Green Economy “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”, (c.d. “collegato ambientale” alla Legge di stabilità 2016). Con tale provvedimento sono state introdotte molteplici disposizioni destinate ad impattare sulla normativa ambientale sino ad allora vigente.
Tra le varie iniziative dell’Unione Europea, volte a fornire strumenti idonei a tutelare i consumatori da fenomeni di Greenwashing ed a garantire loro informazioni veritiere sulla sostenibilità dei prodotti che scelgono di acquistare si ricordano, tra le più recenti, che tra l’altro sono state incluse nella nuova Agenda dei Consumatori dell’Ue (2020-2025): il Green Consumption Pledge, la proposta legislativa per rafforzare il ruolo dei consumatori nella transizione verde e la proposta legislativa sulla dimostrazione della veridicità delle affermazioni ecologiche.
Da segnalarsi anche l’introduzione dell’obbligo di dotare i prodotti alimentari di etichette nutrizionali armonizzate tra gli Stati membri e dell’obbligo di etichetta energetica UE per gli elettrodomestici, al fine di permettere ai consumatori di conoscere l’efficienza energetica di taluni prodotti e di acquistarli nella consapevolezza di reali risparmi.
In tale cornice, inoltre, nella vigenza dell’Accordo di Parigi e nell’ambito degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Onu, l’Unione Europea ha recentemente adottato il Green Deal.
Senza dimenticare il lavoro delle Associazioni consumatori, dello Iap, l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, che raccoglie i soggetti coinvolti nella pubblicità, le imprese che investono, le agenzie creative ed i mezzi di diffusione con il fine di tutelare il pubblico affinché la comunicazione commerciale sia “onesta, veritiera e corretta”, di cui si è già parlato.
A questi si aggiunge a livello nazionale l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, che vigila e reprime la pubblicità ingannevole sanzionando le aziende che lo praticano.
L’Autorità ha inserito la pratica del Greenwashing nella black list delle pubblicità ingannevoli.
È possibile riconoscere il Greenwashing?
La Federal Trade Commission (FTC) americana è stata un’antesignana nello stilare, nei primi anni 2000, le linee guida per l’utilizzo di “environmental marketing claims”, regole che obbligano le aziende alla chiarezza e trasparenza non solo nella corretta ed esaustiva portata del proprio impegno ambientalista, ma anche nelle scelte del linguaggio.
Tra le tipiche pratiche di Greenwashing può annoverarsi l’uso di una comunicazione scorretta, attraverso un linguaggio volutamente vago, generico, poco trasparente per l’utenza o così scientifico da non essere fruibile; comunicazione reticente ed omissiva, laddove l’azienda si proclama “green” soltanto in relazione ad una fase marginale del processo produttivo, oppure viene esaltato il prodotto come piu’ ecosostenibile di altri, non fornendo dati utili che consentono un riscontro delle performance.
Altre tecniche sleali si riscontrano, per esempio, nel promuovere iniziative di rimboscamento, nascondendo che l’abbattimento di piante ed alberi è direttamente legato alla propria attività; nel pubblicizzare riduzioni di emissioni di sostanze inquinanti attraverso campagne, però, “energivore”; nell’usare un’autocertificazione, invece di una certificazione riconosciuta e accreditata, fornita da Enti terzi e imparziali, mentendo sulle performance ambientali.
Esistono, poi, una serie di certificazioni ambientali sia di prodotto (etichette ambientali di tipo I,II,III) che di processo (ISO 14001; EMAS) in grado di contrastare il fenomeno del Greenwashing:
- Etichette ambientali di tipo I (ISO 14024): il marchio viene concesso solo ai prodotti che hanno un ridotto impatto ambientale ed è ottenibile solo grazie alla certificazione di un ente terzo ed indipendente
- Etichette ambientali di tipo II (ISO 14021): auto-dichiarazioni fornite dai produttori. Riguardano le caratteristiche ecologiche del prodotto e devono essere accurate, verificabili e non ingannevoli. Viene richiesto l’utilizzo di metodologie verificate e provate su basi scientifiche, che consentano di ottenere risultati attendibili.
- Etichette ambientali di tipo III (ISO 14025): le c.d. “Dichiarazioni Ambientali di Prodotto” (EPD) che forniscono indicazioni sui prodotti e i servizi relative ai potenziali impatti ambientali riferiti all’intero ciclo di vita. Tutte le informazioni sono verificate da un organismo accreditato e indipendente.
- Certificazione EMAS e certificazione ISO 14001: queste certificazioni permettono alle aziende di attestare la validità del proprio sistema di gestione ambientale (SGA).
Solo conoscendo il fenomeno del Greenwashing è possibile difendersi dalla comunicazione ingannevole, impedendo il proliferare di pratiche sleali nei confronti di consumatori ed aziende che, realmente, si impegnano in favore dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile.
Comunicare la sostenibilità e il rispetto per l’ambiente è una effettiva necessità delle aziende, ma deve essere conforme e rispettosa delle norme.