Gigafactory dell’idrogeno a Milano, un progetto da 5 Megawatt per un’energia sostenibile

Abbiamo chiesto all'architetto Memo Colucci, che ha firmato il progetto, di raccontarci qualche dettaglio della Gigafactory dell'idrogeno più grande d'Italia

Foto di Matteo Paolini

Matteo Paolini

Giornalista green

Nel 2012 ottiene l’iscrizione all’Albo dei giornalisti pubblicisti. Dal 2015 lavora come giornalista freelance occupandosi di tematiche ambientali.

L’11 giugno 2024, una cerimonia di posa del primo mattone ha dato il via ai lavori per quella che diventerà la più grande “gigafactory” per la produzione di idrogeno in Italia. Questa sorgerà alle porte di Milano, nell’area ex Rapisarda di Cernusco sul Naviglio, un’industria dei tubi dismessa da decenni.

La prima fabbrica di elettrolizzatori in Italia offrirà lavoro a 200 persone e creerà un indotto per circa 2.000 lavoratori, secondo i proponenti dell’opera, l’azienda De Nora e Snam, società di infrastrutture energetiche con sede a San Donato Milanese. Le due aziende hanno costituito la società De Nora Italy Hydrogen Technologies nel maggio 2022, con l’obiettivo di realizzare questo grande impianto.

Abbiamo intervistato l’architetto milanese Memo Colucci, che ha firmato il progetto, chiedendogli di raccontarci qualche dettaglio sulla Gigafactory più grande d’Italia.

Indice

Può descriverci il concept e la visione generale dietro la progettazione della Gigafactory dell’idrogeno?

L’architettura industriale in Italia rappresenta una sfida importante soprattutto se si tratta di progettare una giga factory che racchiude in sé diversi ambiti produttivi. L’esempio è la visione di Adriano Olivetti, molto innovativa e progressista. Credeva che il successo di un’azienda dipendesse non solo dalla produzione di beni di alta qualità, ma anche dal benessere dei dipendenti e dalla collaborazione con la comunità locale. La visione compositiva si è ispirata al concetto di monumentalità dell’architettura attraverso la volontà di creare un edificio che non fosse solo frutto di un’architettura effimera, fatta di componenti di produzione industriale organizzati per celare i macchinari e le tecnologie. L’idea è quella di creare un edificio iconico che possa essere riferito al territorio industriale nel contesto delle vie d’acqua del territorio lombardo.

Quali sono state le principali sfide architettoniche e ingegneristiche che ha dovuto affrontare nella progettazione di questo hub?

La prima sfida consiste nel dialogo tra i volumi dell’edificio e il territorio. L’edificio di grandi dimensioni deve creare una spinta emotiva nello spettatore il quale, osservandone le forme e le sensazioni provocate dai volumi aggettanti, dal verde, dall’acqua della lunga cascata lineare, dai giochi di luce creati dai volumi, potrà percepire il ruolo dell’architettura industriale. Sotto il profilo funzionale la sfida più complessa consiste nel far dialogare le logiche produttive con i regolamenti locali, con il benessere dei lavoratori, il territorio e con le logiche di risparmio energetico.

In che modo questo progetto si inserisce nel contesto urbano e ambientale di Milano?

Il concetto di tipologia esprime il percorso metodologico compositivo come contestualizzazione del progetto come ricerca protesa a recuperare e a ri-esprimere quei caratteri storici primari, che contraddistinguono la singolarità di un paesaggio antropico. Il grado di razionalità di un’architettura non può dunque essere desunto dalla logica formale e da quella costruttiva, ma dal suo complesso modo di corrispondere nel tempo e nello spazio, per coerenza o per contraddizione, a quell’insieme che ha assunto funzione e significato di individualità urbana. Il contesto ormai frammentato del territorio milanese deve essere riletto con profondità per ritrovare l’essenza delle vie d’acqua che hanno caratterizzato il contesto delle architetture del passato della Martesana e dell’Adda. Il progetto si inserisce proprio in questa lettura come nuova architettura industriale sorta come nel passato ai margini dell’acqua che dava l’energia necessaria per la produzione.

Come è stato pianificato l’uso combinato di fotovoltaico e geotermia per garantire che l’energia prodotta superi il consumo dei servizi previsti?

L’intero edificio è concepito come raccoglitore di energia fotovoltaica attraverso i pannelli orientati a Sud, le pensiline fotovoltaiche e le tettoie fotovoltaiche. Le grandi aperture consentono di far penetrare la luce solare filtrata all’interno di tutte le aree interne dell’edificio per ridurre l’impatto dei consumi derivanti dall’illuminazione artificiale. L’acqua del sottosuolo sarà utilizzata per il riscaldamento e il raffrescamento dell’edificio attraverso la geotermia pensando anche alla ventilazione naturale dell’edificio che consentirà di minimizzare l’utilizzo della climatizzazione artificiale. L’energia prodotta sarà di circa cinque megawatt e potrà essere utilizzata per la produzione industriale calcolando i fattori di contemporaneità e la differenziazione dei carichi energetici in base anche alla capacità produttiva.

Può spiegare come i materiali fotocatalitici scelti per le facciate contribuiscano alla riduzione degli inquinanti atmosferici?

Le pitture fotocatalitiche sono in grado di pulire l’aria dagli inquinanti atmosferici, sfruttando il processo fotocatalitico delle particelle di biossido di titanio, un catalizzatore sensibile alla luce. Queste tipologie di pitture sono in grado di agire sugli ossidi di azoto che svolgono le reazioni chimiche nell’atmosfera producendo l’ozono, trasformandoli in acido nitrico che può essere gestito più facilmente. I fotocatalizzatori presenti in queste vernici scatenano una serie di reazioni foto-chimiche che vanno a decomporre le sostanze organiche e parte delle sostanze inorganiche presenti nell’atmosfera, favorendo la decomposizione degli inquinanti atmosferici. Quando una particella di inquinante (ad esempio biossido di azoto, biossido di zolfo, monossido di carbonio, benzene, ammoniaca, formaldeide e particolato atmosferico PM10) entra in contatto con il biossido di titanio, viene decomposta e trasformata in anidride carbonica, azoto e qualche sale che vengono dilavate con la pioggia per essere poi raccolte e riutilizzate per le acque destinate ai servizi igienici e al biolago che depura ulteriormente l’acqua attraverso i fitodepuratori naturali. La fitodepurazione è un sistema di trattamento delle acque reflue, progettato e costruito per riprodurre artificialmente i naturali processi autodepurativi presenti negli ambienti umidi. L’azione delle piante è fondamentale perché nelle loro radici si sviluppano i microrganismi necessari all’intero sistema: essi, assorbendo l’ossigeno prodotto dalle specie vegetali, innescano i processi chimici necessari alla depurazione dell’acqua.

Quali tecnologie specifiche sono state implementate per minimizzare le emissioni di CO2 dell’hub?

Tutto il progetto è stato concepito attraverso la determinazione del Life Cycle Assessment o Lca che valuta un insieme di interazioni che un prodotto o un servizio ha con l’ambiente, considerando il suo intero ciclo di vita che include le fasi di pre-produzione (quindi anche estrazione e produzione dei materiali), produzione, distribuzione, uso (quindi anche riuso e manutenzione), riciclaggio e dismissione finale. La determinazione della carbon footprint rappresenta l’emissione di gas clima-alteranti (CO2, CH4, ossido nitroso N2O, idrofluorocarburi HFCs, perfluorocarburi PFCs e esafloruro di zolfo SF6) attribuibile a un prodotto, un’organizzazione o un individuo. Viene così misurato l’impatto che tali emissioni hanno sui cambiamenti climatici di origine antropica. La carbon footprint è espressa in termini di kg di CO2e (CO2 equivalente). La prima scelta è stata operata nel valutare un’area edificata da rigenerare attraverso la demolizione e il riutilizzo dei materiali recuperati con la frantumazione in loco. Questa scelta ha consentito di risparmiare molti viaggi di camion con un risparmio previsto di circa 55 milioni gCo2, pensate che un albero produce circa 22.000 gCo2 in un anno. Poi con le fasi successive sono stati valutati i materiali impiegati, i tempi di realizzazione, le ore di lavoro e tutti i fattori che determinano l’impatto sulla produzione di CO2. Infine, nel progetto saranno impiegate le essenze arboree con maggiore capacità di produzione di ossigeno. Questi sono i primi elementi essenziali che costituiscono una progettazione sensibile.

Come sono stati integrati gli elementi di rinaturalizzazione, come tetti e pareti verdi, nel design complessivo?

Ogni progetto è frutto di scelte operate su molti elementi variabili. Ad esempio, la superficie coperta potrebbe essere completamente realizzata con tetti verdi ma poi non potrebbe produrre energia col fotovoltaico o non potrebbe lasciar passare la luce verso l’interno. Quindi è stata operata la scelta di produrre energia nei punti della copertura maggiormente esposta, mentre la scelta del tetto verde è stata operata nelle aree visibili dagli uffici e nelle aree verdi di ristoro in copertura che restituiranno anche un calmieramento dell’irraggiamento solare. In copertura sono previsti circa 10.000 mq di giardini piantumati. Al piano di campagna abbiamo progettato un giardino collinare con l’inserimento del biolago che costituirà insieme alla fontana lineare lunga circa 80 metri un insieme di rinaturalizzazione del territorio come mitigazione dell’impatto edilizio.

In che modo l’architettura dell’hub favorisce la trasparenza alla luce naturale e la ventilazione naturale per creare un ambiente di lavoro ideale?

La luce è un elemento essenziale per la vita, stimola la produzione di serotonina, l’ormone della felicità, e la melatonina, che regola il sonno e la veglia. A sua volta, la luce ridotta causa fluttuazioni nei livelli di corRsolo, l’ormone dello stress – che ci rende sonnolenti. Questi non sono gli unici aspetti influenzati dalla luce. Come tutti gli elementi naturali deve essere trattata con equilibrio, infatti in relazione all’esposizione rispetto all’asse eliotermico sono stati adottati alcuni effetti di mitigazione utilizzando perlopiù un’illuminazione naturale zenitale. All’interno della gigafactory tutti gli uffici sono stati disposti in corrispondenza delle portefinestre verso l’esterno mantenendo le aree produttive al di sotto della luce zenitale proveniente dalla copertura. La ventilazione naturale è stata utilizzata prevendendo i corselli di areazione interrati che favoriscono la penetrazione dell’aria fresca proveniente dal sottosuolo che circola all’interno dell’edificio per poi uscire verso l’alto attraverso i lucernari. Ogni ambiente è lambito dall’aria naturale proveniente dal sottosuolo. Infine, il ruolo del verde è fondamentale per il benessere delle persone, tutti gli uffici e tutti i settori di produzione sono organizzati per affacciarsi sulle aree verdi le quali attraverso la distribuzione equilibrata delle essenze arboree costituiranno delle vere oasi visive.

Quali opportunità di lavoro nel settore dell’energia green prevede che questo progetto possa generare?

Questo progetto costituisce un primo esempio di produzione green energy saving. Una volta comprese le potenzialità della produzione e stoccaggio del green hydrogen si comprenderà che i prodotti sviluppati sono frutto dell’ingegneria e della produzione specialistica che comporta l’impiego di molti lavoratori. È una nuova frontiera e come tale proporrà e già ora propone molti posti di lavoro in tutte le categorie soprattutto rivolte all’impiego di operai e tecnici specializzati.

Come il museo dell’energia contribuirà alla diffusione della consapevolezza e della cultura riguardo le energie rinnovabili e sostenibili?

Il museo d’impresa è uno strumento distintivo e progressivamente sempre più diffuso – e, permettetemi, nobilitante – per raccontare un’idea (imprenditoriale in questo caso) e il suo modo di realizzarla. È uno strumento che permette di andare in profondità; è ricco di opportunità (tanto per il suo animatore che per il destinatario) nel raccontare il talento di un innovatore di posizionamento e di comunicazione di una visione: in una parola, di storytelling. Tutti noi siamo andati a visitare il museo della scienza e della tecnica, abbiamo compreso il mulino a vento, quello ad acqua, il funzionamento dei telai per la tessitura, fino ai marchingegni tecnologici che la storia industriale e le invenzioni hanno prodotto in più di un secolo. Pensate ora al racconto del sole che si trasforma in energia mediante l’acqua per poi essere accumulata sotto forma di idrogeno e poi essere ritrasformata in energia elettrica attraverso le fuel cell. È un racconto affascinante che potrà stimolare i giovani verso un futuro diverso in armonia con la natura. D’altra parte, siamo solo agli inizi.

Può spiegare come la giga factory sarà integrata nella rete pubblica di Milano e con i percorsi alberati di interconnessione?

Il progetto della giga factory è stato concepito in prossimità della stazione della linea metropolitana villa fiorita. All’inizio della progettazione era stato concepito il progetto di rifunzionalizzazione delle vie di interconnessione tra la città e la giga factory. Poi è stata operata la scelta di preparare le linee guida e predisporre l’idea generale che prevede la riqualificazione della piazza antistante la stazione metropolitana e la riqualificazione dei percorsi ciclabile e pedonale alberati di collegamento tra la fabbrica e la rete viaria esistente. Questa fase di progettazione sarà demandata al Comune il quale realizzerà le opere previste utilizzando gli oneri di urbanizzazione versati per la realizzazione del progetto.

In che modo l’idrogeno prodotto fornirà energia per la mobilità leggera all’interno dell’area?

La mobilità leggera potrebbe essere anche alimentata attraverso l’idrogeno prodotto, si tratta di trovare la volontà di collaborazione sinergica tra i gestori della mobilità leggera locale e la gigafactory ma tecnicamente il principio è utilizzabile. Pensate che in alcuni Paesi è stato creato il principio dell’energia condivisa attraverso il quale quando tu non utilizzi l’energia solare prodotta questa viene immessa in rete e tutti la possono utilizzare per ricaricare l’auto, la bici. È a come un baratto energetico. Alcuni Paesi funzionano già così attraverso le reti mesh. Poi bisognerebbe fare i conti coi gestori dei distributori dell’energia.

Quali sono le sue aspettative e speranze per l’impatto a lungo termine di questo progetto sull’urbanistica e sull’ambiente di Milano?

Credo che l’impatto di questi progetti sia energeticamente positivo, si intraprende una strada attraverso la quale i quartieri, e gli edifici possano diventare trasformatori e generatori di energia. Nel quale gli edifici possano essere scelti in base anche ai consumi e all’impatto ambientale che generano. L’innovazione porterà una grande attrattività al pari di quello che è stato per le grandi città innovatrici internazionali. Oltretutto queste tecnologie sono impiegabili anche negli edifici storici con un impatto estremamente più contenuto rispetto all’impiego degli impianti di riscaldamento a combustibile fossile. Un mio recente progetto prevedeva che i nuovi quartieri milanesi avessero una vocazione attraverso la quale il quartiere fosse distinguibile e caratterizzato rispetto alla città. Il progetto portava il nome “la città della musica” ed era integralmente alimentato da green hydrogen con un biolago centrale per la depurazione e la conservazione dell’acqua. D’altra parte non credo che le città possano essere attrattive esclusivamente per le loro aree commerciali e le caratteristiche morfologiche anche particolari e uniformate a livello internazionale.